Il 21 aprile, giorno di Pasqua, lo Sri Lanka è stato scosso da una serie di attentati terroristici che hanno portato morte e terrore. Il tutto ha avuto inizio quando un kamikaze ha deciso di farsi esplodere nel santuario di Sant’Antonio situato a Colombo, la capitale del paese. Questo episodio è stato solo l’inizio di una sequenza di attacchi terroristici calcolati nei minimi dettagli. Nelle ore successive, infatti, si sono verificate altre sette esplosioni.
Il bilancio di queste stragi è di 253 morti e oltre 500 feriti. L’aspetto più preoccupante è che questi numeri potrebbero aumentare. Il Dipartimento di Stato Usa, infatti, ha annunciato che gruppi terroristici starebbero pianificando nuovi attentati volti a colpire località turistiche, chiese, alberghi, aeroporti. Il rischio e la paura di nuove stragi rimane dunque altissimo.
Il governo ritiene che dietro questi attacchi ci sia il National Thowheeth Jama’ath, gruppo estremista islamista locale che, grazie all’aiuto dell’Isis, sarebbe riuscito ad organizzare una perfetta sequenza di stragi. L’ipotesi di sostegno da parte del sedicente Stato Islamico deriva dal fatto che si dubita che gruppi di estremisti così piccoli, come nel caso di NTJ, possano aver effettuato attentati terroristici così coordinati senza il supporto di una rete internazionale. Alla base di questi attacchi, infatti, c’è una pianificazione lunga e dettagliata che poco ha a che fare con un gruppo estremista che fino all’anno scorso si “limitava” a vandalizzare alcune statue di Budda.
L’Isis, attraverso la sua agenzia Amaq, ha rivendicato gli attentati, nonostante non ci siano prove in merito ad un suo coinvolgimento diretto. Tuttavia, l’impiego di diversi kamikaze su più obiettivi e la precisione con cui sono stati programmati gli attentati evidenzia, al di là di qualsiasi prova, un’organizzazione, una strategia militare e una capacità di plagiare e pilotare gli attentatori suicidi tipica prima di Al Qaeda e poi dell’Isis.
Le tensioni multietniche e multireligiose, presenti nel paese, offrono terreno fertile all’estremismo islamico. Lo Sri Lanka è da sempre caratterizzato da scontri armati fra fazioni etniche e religiose. Basti pensare che per 30 anni ci fu una guerra civile (finita nel 2009) fra la parte governativa cingalese dell’isola, di cultura buddista, e il nord di etnia Tamil, di religione induista, che combatteva con una struttura paramilitare conosciuta come le “Tigri” separatiste dell’Elaam. Sia durante che dopo questa guerra ci furono conflitti tra la maggioranza cingalese buddista e la minoranza musulmana. Ancora oggi la violenza di gruppi buddisti radicali è rivolta contro i musulmani e, da alcuni anni, anche contro i cristiani cattolici, evangelici e pentecostali, considerati gruppi fautori di un proselitismo religioso piuttosto marcato.
L’estremismo islamico nel sud-est asiatico, invece, nasce nelle Filippine. Il nome del gruppo più grande è Abu Sayyaf. In passato è stato uno dei principali partner della rete di Al Qaeda e molti dei suoi membri hanno combattuto a fianco di Bin Laden in Afghanistan.
Negli ultimi 3 anni più di 60 gruppi nel sud-est asiatico hanno giurato fedeltà all’Isis e si ritiene che dal 2015 siano stati 41 i musulmani srilankesi che si sono uniti a Daesh. Il rischio è che l’ideologia del sedicente Stato Islamico possa espandersi in questa zona del mondo a causa della perdita di terreno in Medio Oriente. Il trampolino di lancio per la conquista del sud-est asiatico è rappresentato dall’Indonesia, la più grande nazione del mondo a maggioranza mussulmana.
Alla questione multietnica e religiosa vanno ad aggiungersi le polemiche sulla sottovalutazione, da parte del governo dello Sri Lanka, dei warning delle agenzie di intelligence straniere. L’India e gli Stati Uniti avevano avvisato i loro colleghi srilankesi di possibili attacchi già lo scorso 4 aprile, ma nonostante tutto pare che gli ufficiali addetti alla sicurezza non abbiano condiviso i rapporti.
La mancata condivisone di informazioni deriva da una faida politica tra il presidente srilankese Sirisena e il primo ministro Wickremesinghe. Alla base di questo dissidio c’è il rapporto tra Sri Lanka e Cina. Il governo di Pechino vuole la supremazia assoluta nell’oceano Indiano e lo Sri Lanka è un perno strategico sulla Via della seta marittima.
I cinesi hanno investito in telecomunicazioni, infrastrutture e porti come la mega struttura portuale di Hambantota, oggetto di polemiche per la cosiddetta “debt trap” (la debt trap diplomacy, o “diplomazia del debito” è un tipo di diplomazia basata sul debito realizzato nelle relazioni bilaterali tra paesi, ndr) che ucciderebbe l’economia locale. Questo progetto non piace molto ai srilankesi ma nemmeno all’India e agli Stati Uniti che temono che Hambantota diventi un porto militare. Preoccupazioni non del tutto infondate dal momento che sommergibili cinesi con testate nucleari sono già stati avvistati nei porti cingalesi. Inoltre, la Cina è riuscita a intrappolare lo Sri Lanka in una ragnatela di debiti, basti pensare che ogni prodotto del paese è cinese.
Quanto accaduto il Sri Lanka si colloca in un contesto politico ben più complesso. Il sud-est asiatico è protagonista di un conflitto tra India e Pakistan che vede coinvolta anche la Cina. Pechino ha bisogno della distensione asiatica e del Mar Cinese al fine di aumentare la propria proiezione globale. Tuttavia, il conflitto tra New Delhi e Islamabad rischia di impedire alla Cina di espandersi. L’India infatti sta facendo di tutto per evitare che il governo di Pechino possa ottenere il controllo nel sud-est asiatico. Un esempio fra tutti è il dispiegamento della flotta indiana a ridosso delle coste pakistane, nel mare arabico settentrionale, avvenuto lo scorso marzo. Questo episodio è un chiaro segnale che New Delhi ha voluto mandare a Pechino, alleato del Pakistan.
A questo proposito gli attentati in Sri Lanka potrebbero rappresentare un nuovo tentativo di destabilizzare ulteriormente l’equilibrio nell’oceano Indiano a discapito soprattutto del governo cinese. Alla base di questi episodi dunque non si collocano solo motivi religiosi ma anche coinvolgimenti politici da parte di stati che vogliono accrescere il loro potere a discapito di alleanze, collaborazioni e condivisione di informazioni.
*Ha collaborato all’articolo Rebecca Molinari
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