“La Bosnia rischia di diventare un cimitero di elefanti, dove la gente tornerà solo per morire dopo anni di lavoro all’estero”. A parlare è Srdan Puhalo, blogger controcorrente di Banja Luka, capitale della Repubblica Srpska, entità serba della Bonsia ed Erzegovina della quale fa parte Srebrenica, città dove si verificò il più grande genocidio in Europa dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
Nel luglio del 1995, dopo anni di guerra, le truppe serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladić uccisero oltre 8mila musulmani.
Oggi il memoriale di Potočari ricorda quei terribili giorni, mentre la città stenta a ripartire, chiusa tra un dolore ancora troppo vivo, difficoltà economiche e una classe politica che getta benzina sul fuoco.
Prima della guerra i residenti di Srebrenica erano quasi 37mila, per l’80 per cento bosgnacchi musulmani. Oggi la località vicino al fiume Drina conta appena 6mila abitanti effettivi, anche se formalmente nei registri risultano 14mila persone, comprendendo anche chi non abita più qui ormai da tempo.
La popolazione è quasi divisa a metà tra le due etnie ma due anni fa, per la prima volta dal genocidio, è stato eletto sindaco un rappresentante serbo, il nazionalista Mladen Grujicic.
Poche settimane fa il presidente della Repubblica Serpska, Milorad Dodik, ha chiesto di annullare il rapporto ufficiale sul massacro di Srebrenica, con una mossa elettorale in vista delle prossime elezioni in programma a inizio ottobre.
“Si ricorre al passato per farsi eleggere”, analizza ancora Puhalo. “Le vittime del conflitto sono uno dei ‘mezzi’ migliori per rimanere al potere. Tutto ciò non ci permette di andare oltre”.
Intanto c’è chi prova a tornare, trovando un impiego pubblico o lavorando nell’agricoltura.
Prima della devastante guerra degli anni Novanta, però, in tanti avevano compiuto il percorso inverso, emigrando da altre zone della Jugoslavia per stabilirsi a Srebrenica, tra le montagne a pochi chilometri dalla Drina che segna il confine con la Serbia, famosa per le sue miniere di zinco e piombo, per le fabbriche metallurgiche e le acque termali.
Proprio lo scheletro dell’hotel Domavia è oggi il simbolo di un passato neanche troppo lontano, quando numerosi turisti arrivavano a Srebrenica per curare l’anemia e le malattie della pelle attraverso le rinomate terme Guber.
Ora, però, quell’acqua scorre a valle senza essere utilizzata, bloccata da burocrazia e mosse politiche. Le concessioni, per lo sfruttamento dell’acqua e per il rilancio dello stabilimento termale, sono infatti in mano a due differenti soggetti e una disputa con il Governo di Banja Luka ha di fatto bloccato un progetto che avrebbe dovuto vedere la fine anni fa.
Oggi, risalendo la strada verso le fonti, circondati dai boschi, si arriva fino ai nuovi scheletri degli edifici iniziati nel 2010 e mai conclusi, di un’attività che avrebbe potuto portare 300 posti di lavoro.
Ma c’è chi crede in un futuro possibile: lo fanno i giovani dell’associazione interetnica Adopt Srebrenica, che lavorano per il dialogo e la memoria.
“Vogliamo far parlare di Srebrenica, oltre le commemorazioni dell’11 luglio”, racconta Valentina Gagić, un membro dell’associazione.
“Abbiamo creato un centro di documentazione per mantenere vivo il ricordo della vita a Srebrenica prima della guerra: abbiamo raccolto materiale di ogni tipo, a partire dalle fotografie. Un progetto importante perché restituisce un’immagine di convivialità ormai andata persa e permette a molti giovani di vedere, per la prima volta, il volto di un loro famigliare morto durante la guerra, grazie a una foto”.
Dal 2007 Adopt organizza, in collaborazione con la Fondazione Alexander Langer di Bolzano, presieduta da Edi Rabini in memoria dell’europarlamentare impegnato per la conciliazione in Bosnia e morto suicida pochi giorni prima del massacro di Srebrenica, la Settimana Internazionale della Memoria. Incontri, dibattiti e visite, per non dimenticare e restituire l’essenza di una città, prima che tutto venisse stravolto dalla guerra.
Ed è così che il ventiquattrenne Bekir Halilović, studente in Legge nell’unica (e destinata alla chiusura) Università di Srebrenica ha fotografato i luoghi simboli della vita prima del 1992, restituendo un’immagine reale del passato.
Ne è nata una mostra, allestita in quel che rimane dell’edificio sulle alture di Srebrenica e che un tempo era un albergo per cacciatori e visitatori della città.
“Erano luoghi che davano lavoro, era una vita opposta a quella di oggi”, racconta Bekir. “È un ricordo dell’economia di questa città, del suo benessere, della capacità politica di far fruttare le risorse che si avevano”.
Restare non è semplice, ma i giovani dell’associazione non sono gli unici a volerlo fare.
“Una vita di scelte imposte da eventi più grandi di noi, ma ora sono tornato per dare un senso a tutto questo peregrinare”, racconta Irvin Mujčić, 30 anni, e un passato troppo simile a molti ragazzi della sua generazione.
Con la famiglia è stato costretto a scappare da Srebrenica nei primi anni Novanta fino all’arrivo in Italia, in val Camonica. Poi un lavoro a Bruxelles, una strada avviata, ma dopo essere tornato in quella parte di Bosnia per un’iniziativa di ricordo qualcosa è cambiato.
Da quasi quattro anni è tornato a vivere a Osmače, un villaggio a 25 chilometri da Srebrenica per dare vita a un progetto completamente autofinanziato che coinvolge decine di famiglie e si basa su turismo sostenibile, ospitalità diffusa, vendita diretta di prodotti, attività escursionistiche e la volontà, di molti, di partecipare alla vita semplice di questa piccola comunità.
Il progetto si chiama Srebrenica – city of hope, città della speranza.
“Rientrare a Osmače è stato il mio regalo di compleanno”, racconta. “Era dicembre, nella casa di famiglia ho trovato un albero di quasi due metri, cresciuto proprio al centro del salotto. È stato difficile, ma sapevo di potercela fare. Oggi sono coinvolte diverse famiglie e riutilizziamo i guadagni per progetti sul territorio, per far rivivere questa terra, tra l’indifferenza dei politici”.
La vera svolta arriverà, conclude Srdan Puhalo, “quando inizieranno a considerarci un Paese di essere umani e non di serbi, croati o bosgnacchi. Sull’odio non si può ricostruire”.
Leggi l'articolo originale su TPI.it