Mancano meno di tre settimane alle elezioni israeliane: un tempo le più partecipate fra le democrazie che non multano l’astensione (affluenza al 85/90 per cento), le ultime nel 2013 si sono fermate al 69 per cento.
Netanyahu arranca alla fine di un mandato in cui ha seriamente danneggiato la rispettabilità internazionale di Israele e ha compiuto numerosi passi falsi in ambito domestico, in particolare rispetto alle sue spese familiari esagerate.
Tuttavia, permane l’annosa questione della mancanza di leadership alternativa, in particolare a sinistra. Il progressista Herzog, che si è alleato con la centrista Livni costituendo il Campo Sionista, non ha il peso specifico di vecchi leader come Rabin o l’ex presidente Peres.
È possibile quindi che Bibi, così come il pubblico israeliano chiama l’attuale primo ministro, la spunti di nuovo (i sondaggi lo vedono all’incirca alla pari con Herzog, che dovrebbe alternarsi con la Livni per la premiership).
Al solito, la sua campagna si basa sulla sicurezza. Da Parigi e Copenaghen fino all’Isis e l’Iran (che si combattono sanguinosamente in Siria), Bibi alimenta lo spauracchio dell’accerchiamento trattandoli come fossero un tutt’uno.
Ancora più a destra, il leader di “il focolare ebraico” Naftali Bennet potrebbe essere decisivo per la formazione di una nuova coalizione di governo conservatrice.
La maggioranza parlamentare è garantita da 61 seggi, il che rende impossibile il formarsi di un governo monocolore (i due partiti più grandi, cioè il Likud di Bibi e la sinistra centrista di Herzog-Livni, stanno fra i 25 e i 30).
Nel video, Bennet contesta un presunto atteggiamento apologetico di Israele verso i partner internazionali. Gira per Tel Aviv e subisce continui torti, da quello che lo tampona alla cameriera che gli rovescia addosso il caffè. Lui, serafico, invece di reagire arrabbiato prodiga accorate scuse.
L’inevitabile toto-coalizioni apre un capitolo interessante riguardo i partiti arabi, in una tornata elettorale che ha poco da proporre rispetto al conflitto (la pace non viene trattata seriamente da nessuno se non dalla sparuta estrema sinistra Meeretz).
Ebbene, i partiti arabi sono tradizionalmente frammentati e danneggiati da una certa apatia elettorale da parte dei palestinesi israeliani (vuoi per principio o per scetticismo).
Questa volta, però, l’incremento della soglia minima per entrare in parlamento da 2 per cento a 3,25 per cento ha costretto i litigiosi partitini a mettersi insieme in una Lista Araba Unita.
Tale lista, se gli arabi scegliessero di rinunciare all’astensionismo e sfruttassero il canale di pressione democratico che li vede demograficamente sempre più avvantaggiati, potrebbe raggiungere i 12 seggi imponendosi come terzo partito.
E qui viene il dilemma: mentre è certo che Bibi non ci andrebbe in coalizione nemmeno sotto tortura, lo farebbe Herzog che è molto più sprovvisto di alleati a sinistra? Oppure, se dovesse prendere un seggio in più rispetto a Netanyahu, sarebbe disposto a farsi sfuggire la premiership a beneficio di Bibi pur di non includere gli arabi nel gabinetto?
Quest’ultima possibilità, che solleverebbe la notissima problematica di Israele come democrazia di stampo etnico-religioso, sembra la più probabile vista la sua campagna più securitaria che pacifista.
Per chiudere con un altro video curioso, qui sotto lo spot dello Shas di Aryeh Deri. Il background: da quando la sinistra mainstream ha lasciato perdere la pace come bandiera, si è lanciata su problematiche socio-economiche interne. In primis, le diseguaglianze all’interno della società israeliana e l’incremento del costo della vita che mortifica il potere d’acquisto della classe media.
Rimane storica la campagna di Boulvard Rothschild a Tel Aviv nel 2011, un movimento contro il caro-casa di cui la sinistra si è fatta interprete assieme al neofita Yair Lapid (destinato a sgonfiarsi sonoramente in queste elezioni dopo l’exploit del 2013).
La “caduta del potere d’acquisto della classe media” è però l’ultima delle preoccupazioni di Shas, partito religioso fondato per tutelare gli ebrei sefarditi (di origine orientale) contro l’esclusivismo elitista degli ashkenazi che li lascia ai margini. Per loro, racconta il video, bisognerebbe piuttosto occuparsi dei poveri veri, quelli “invisibili”.
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