Il déjà-vu politico che annoia a morte i cittadini spagnoli era stato ampiamente vaticinato dalla stampa nelle scorse settimane. Rajoy non ce l’avrebbe fatta neanche questa volta. Eppure, il premier in funzione Mariano Rajoy sperava in un miracolo dell’ultimo minuto per la seconda votazione d’investitura, tenutasi lo scorso 2 settembre 2016.
Nessuna moltiplicazione dei patti e dei pesci. Mariano Rajoy Brey, leader del Partito Popolare, non ha superato nemmeno la seconda votazione, tramite la quale si cercava di raggiungere una maggioranza semplice, a seguito della mancata maggioranza assoluta di 176 seggi. Rajoy ha fallito per una differenza di dieci voti (170 a favore e 180 contro), impantanato in uno scenario politico nel quale dissapori e discordanze tra gli attori prevalgono sulla mitezza e l’urgente necessità di stipulare accordi concreti che permettano la tanto attesa governabilità del Paese.
Il fallimento del premier, che questa volta si era dimostrato sensibilmente più remissivo e incline al dialogo – firmando un accordo di governo con Ciudadanos, il partito centrista di Albert Rivera – non compromette soltanto gli equilibri economici del Paese, bloccando la stesura del nuovo bilancio generale dello Stato. L’investitura fallita assume un peso rilevante nella carriera politica di Mariano Rajoy, che non ne uscirà di certo indenne.
Alla resa dei conti, Sanchez e Rajoy sembrerebbero trovarsi entrambe nella medesima situazione dei mesi scorsi. La rispettiva perdita di credibilità e appeal politico giustifica il pensiero di tutti gli analisti che considerano prudente, sia per il Partito popolare che per i socialisti del Psoe, sostituire i propri leader, per non colare a picco. Risulterebbe addirittura ridicolo che essi si ripresentassero alle prossime (probabili) elezioni generali.
Per Pablo Iglesias, leader del partito Podemos, il problema della Spagna sarebbero i socialisti, che rifiutano un’alleanza con i viola e l’astensione, negando il potere a Mariano Rajoy, decisi più che mai a declinare la leadership dell’opposizione di un governo guidato dai Popolari. Come direbbero gli spagnoli: ni comen, ni dejan comer.
Eppure, se è vero che Sanchez ha impedito la formazione di un governo, prediligendo un decisissimo “no” a una prudente e più responsabile astensione, è anche vero che il premier in funzione nel suo lunghissimo e soporifero discorso (tramite il quale “avrebbe dovuto” recuperare consensi in Parlamento) non ha dato segnali di autocritica, che era più che mai necessaria, considerando gli scandali di corruzione che coinvolgono il Partito Popolare. Presentarsi come l’unica opzione “stabile, moderata ed efficace” non è forse il modo migliore per porre fine all’impasse politica che affligge la Spagna.
E come giustamente scrive il politologo Jorge Galindo nel quotidiano spagnolo El País, quando la realtà politica si ripete, sembra inevitabile lo facciano anche le eventuali valutazioni. Bene: se i partiti non saranno in grado trovare una soluzione entro il 31 di ottobre 2016, nel rispetto della volontà espressa dai cittadini alle passate elezioni, la Spagna tornerà al voto a dicembre, per un terzo giro elettorale.
Quello che non sappiamo, però, è quanti avranno voglia di esprimere per la terza volta in un anno un parere che i leader hanno dimostrato di non voler ascoltare, accecati dagli interessi delle rispettive sigle.