Sondaggi presidenziali
Passato l’uragano, ad apparire meno minaccioso non è solo il cielo sopra New York, ma anche l’orizzonte di Obama. Rovesciando il momentum repubblicano delle recenti settimane, l’efficace risposta a Sandy da parte dell’amministrazione in carica ha verosimilmente portato non pochi benefici, in parte riflettuti nei sondaggi. I recenti sviluppi dovuti alla tempesta sono centrali anche nella riflessione su un tema che ha costituito una vera ossessione collettiva fino a pochi giorni fa: quale peso bisogna attribuire ai dibattiti presidenziali.
Per l’opinione pubblica è il momento decisivo della corsa. Non a caso, dopo la debâcle di Denver un vero e proprio panico si era diffuso fra i sostenitori di Obama, ben rappresentato da quanto scritto sul Daily Beast da Andrew Sullivan: “Quando un presidente si auto-immola in tv e il suo avversario brilla con bugie e sorrisi davanti a un numero record di spettatori è difficile vedere come lui e il suo partito possano riprendersi”.
Tuttavia, per molti scienziati politici, storicamente i faccia a faccia televisivi sono stati ben lontani dal ruolo di game changers che gli si attribuisce. In un recente studio, Robert Erikson e Christopher Wlezien notano che nelle passate competizioni la «fase dei dibattiti», una volta conclusa, ha lasciato un segno piuttosto debole sul grado di supporto goduto dai candidati, con una volatilità dell’elettorato fra il pre e il post, misurata dai polls, estremamente contenuta. Un altro ricercatore, John Sides, evidenzia che stabilire le conseguenze reali di quei dibattiti, generalmente considerati decisivi, è in realtà tutt’altro che semplice. La sudorazione di Nixon in diretta tv certo non lo aiutò nel 1960; tuttavia, la validità statistica delle misurazioni effettuate prima e dopo il confronto (che registrarono un ribaltamento a favore di Kennedy nella distribuzione dei consensi) è stata messa in dubbio, così come è stato notato che il vantaggio dei Repubblicani aveva cominciato a ridimensionarsi già in precedenza.
A giudicare dai polls che si sono accumulati nei mesi il mood del 2012 favorisce i democratici, e in genere la stagione dei duelli tv non modifica in maniera significativa le tendenze precedentemente registrate nell’opinione pubblica. Le preoccupazioni che hanno attraversato il campo di Obama dopo Denver sembrano quindi eccessive. Il quadro di questi ultimi giorni, con la (parziale) ripresa democratica, sembra confermare tale lettura. Se il presidente verrà riconfermato, le elezioni del 2012 saranno verosimilmente citate in futuro per ribadire la scarsa risolutività dei dibattiti: anche una debâcle storica come quella di Denver, si potrà dire, non è stata sufficiente a rimescolare le carte in tavola.
Tuttavia tale interpretazione trascura che, fino all’arrivo di Sandy, questa tornata elettorale andava delineandosi come un’eccezione alla regola. Sicuramente la stagione dei dibattiti ha agito sull’opinione pubblica: una panoramica sui risultati usciti in questi mesi mostra che in particolare il primo faccia a faccia ha lasciato un segno visibile e, quel che più conta, duraturo. Su scala nazionale, l’incontro in Colorado ha infatti determinato un’inversione di tendenza che con il passare delle settimane è andata generalmente accentuandosi, non riassorbendosi. A una settimana dal voto, in diverse indagini Romney risultava ancora il candidato preferito dai likely voters.
È in buona parte grazie all’uragano che i Democratici stanno riguadagnando terreno. Per qualche giorno Obama ha potuto ritrasformarsi da candidato traballante ad autorevole commander in chief. Romney ha dovuto restare a guardare, mentre un Repubblicano d’assalto come il governatore del New Jersey Chris Christie accoglieva il presidente come un salvatore. Tuttavia, se la furia della natura non si fosse abbattuta sull’East Coast, oggi l’immagine dell’Obama «versione Denver» sarebbe ben più presente nella coscienza collettiva.
Sandy a parte quanto registrato nei sondaggi va preso in ogni caso con cautela, per diverse ragioni. I polls si contraddicono l’un l’altro, presentano spesso margini di errore che rendono le loro previsioni del tutto inutili e non mancano di rivelarsi parziali e difficilmente generalizzabili. Inoltre, le misurazioni su scala nazionale spesso divergono da quelle relative ai singoli swing-states, gli unici in cui le campagne contano davvero. Ad esempio in Ohio, stato decisivo per l’intera elezione, Obama ha recuperato consensi già nella seconda metà di ottobre, ben prima dell’uragano. Lì i dibattiti del 2012 hanno avuto minore impatto di quanto suggerirebbero i rilevamenti nazionali.
Si può infine ipotizzare, con Gerald Seib del Wall Street Journal, che Denver abbia cambiato non tanto le intenzioni di voto degli elettori, quanto il loro modo di rispondere ai sondaggi. Il candidato del Gop ha mostrato per la prima volta di poter sostenere il confronto con Obama su un piano paritario, recuperando il differenziale di carisma con il suo rivale. L’orgoglio repubblicano ne ha certamente guadagnato, e ciò può aver significato che molti fra quanti avevano già deciso di votare Romney si sono anche dimostrati meno riluttanti a dichiararlo apertamente ai pollsters. Forse il supporto di Romney era, già prima dei dibattiti, ben maggiore di quanto si pensasse.
Tali osservazioni mettono in discussione l’affidabilità dei sondaggi, una buona ragione per mantenere estrema prudenza nelle previsioni sull’esito finale. Se accettiamo di ragionare con gli strumenti imperfetti di cui disponiamo, però, resta il fatto che i dibattiti del 2012 hanno avuto sull’opinione pubblica un effetto raro, se non unico, nella storia statunitense. Se Obama alla fine la spunterà, in buona parte grazie a Sandy, difficilmente tale impatto riceverà l’attenzione che merita nelle analisi che seguiranno. Le vie della memoria collettiva, si sa, sono tortuose.
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