Quando nel 2007 Oliver Percovich, skateboarder australiano di 32 anni, mise per la prima volta piede a Kabul non aveva in mente nessun progetto particolare.
Stava solamente raggiungendo Sharna Nolan, la sua compagna di allora, arrivata qualche mese prima per lavorare come ricercatrice e consulente in alcuni programmi di sviluppo rurale.
Col tempo, mi racconta, “le basi teoriche acquisite grazie alla specializzazione in scienze sociali mi spinsero a concentrare l’attenzione sul potenziale nascosto nei legami interpersonali che, in una società da ricostruire come quella afghana, possono essere altrettanto importanti ed efficaci del denaro”.
In ogni caso, l’idea iniziale – ammette – gli si palesò in mente in maniera molto più banale: “Un giorno mi ritrovai a camminare per il centro della città, e pensai semplicemente a quanto sarebbe stato fico se avessi potuto costruire una mini-rampa da qualche parte”.
A primo impatto l’accostamento potrebbe sembrare stridente: non è facile immaginare il senso di questo innesto culturale apparentemente forzato e fuori luogo. Un’attività che evoca immagini di giovani sportivi benestanti, con il loro abbigliamento da strada, che si sfidano a colpi di numeri acrobatici nelle periferie metropolitane occidentali.
Eppure, appena posò in strada la sua tavola per la prima volta, Ollie fu immediatamente circondato da facce curiose di giovani di ogni età, che si accalcavano desiderosi di vedere cosa ne avrebbe fatto. In quel momento, in mezzo a quel polverone, capì a cosa si sarebbe dedicato nei mesi successivi.
“L’idea era quella di creare un luogo di contatto tra i bambini e le bambine, indipendentemente dalla loro estrazione sociale, dalla loro etnia o dalla loro età. Non appena sono riuscito a ottenere le prime tre tavole e a fargliele provare, ho visto i loro occhi illuminarsi e ho capito che così sarei riuscito a ‘catturare’ la loro attenzione.”
Il 70 per cento della popolazione afghana ha meno di 25 anni; il 42 per cento meno di 15. In un primo periodo Oliver aveva tenuto solo qualche lezione a settimana, in via informale, attorno a un vecchio fontanile russo in disuso nel distretto di Mekroyan, nel centro di Kabul.
Poi, insieme a Sharna, scrissero il progetto e lo sottoposero alla comunità dei finanziatori internazionali. Due anni dopo, grazie soprattutto alle donazioni delle ambasciate tedesca, canadese, norvegese e danese, e al sostegno del Comitato olimpico nazionale afghano, il progetto Skateistan era ormai completamente avviato.
A novembre del 2009 è stata ultimata la costruzione del primo skatepark del Paese, completo di tutte le attrezzature e gli equipaggiamenti necessari, nonché di alcune classi munite di computer con connessione internet e di altre strutture educative esterne per un totale di 5.428 metri.
Ollie definisce gli skate carrots, con le quali riesce ad attirare anche i soggetti normalmente più difficili da raggiungere: i bambini dai 5 ai 18 anni che lavorano per le strade, i giovani con disabilità, e le bambine, spesso tenute al riparo a partire dalla pubertà. Oggi complessivamente sono circa 400 gli studenti accolti ogni settimana, il 40 per cento dei quali di sesso femminile.
Con il tempo le attività sono andate ben oltre il semplice insegnamento delle tecniche di skating. Nuove opportunità di gioco e di interazione interculturale, programmi educativi di reintegro nella scuola pubblica e corsi finalizzati allo sviluppo personale, alla responsabilizzazione civica e alla creazione artistica, vengono portati avanti nelle classi multimediali adiacenti allo skate park.
Negli ultimi due anni il progetto ha ricevuto un buon numero di premi e riconoscimenti internazionali, ed è stato oggetto di due documentari.
“La gente continua a guardare le nostre scarpe in maniera strana, pensano che siano attaccate alle tavole attraverso qualche sorta di campo magnetico”, racconta Murza, di 17 anni.
Oggi Skateistan è diventata una delle Ong locali e indipendenti più conosciute, e questo successo gli ha permesso di espandere le proprie attività per dare vita a nuovi progetti tutt’ora in corso d’opera, come quello a Mazar-i Sharif, nel nord dell’Afghanistan, in Cambogia e in Pakistan.
In questo rapido successo non sono tuttavia mancati i momenti di difficoltà. Nonostante la maggior parte dei genitori fosse favorevole alla partecipazione delle loro figlie, l’idea di bambini e bambine che si esercitano insieme, alle volte in pubblico, ha creato malumori tra gli adulti di mentalità più tradizionale.
“Nessun afghano ci ha mai intimato di andarcene o di fermare le attività, ma sappiamo che alcuni padri e fratelli maggiori non sono contenti”, racconta il fondatore Oliver.
“Ciononostante non ci sentiamo minacciati, sappiamo che la grande maggioranza dei genitori è felice e soddisfatta di quello che facciamo”.
Fatima, una bambina di 10 anni, si aggiusta il velo azzurro che ha in testa dopo aver finito una serie di rampe. “Mio padre è felice per i 100 afghanis, pari a circa un euro e cinquanta centesimi, che guadagno ogni giorno per insegnare lo skate”, commenta soddisfatta. Con quei soldi lo aiuto a pagare la retta scolastica.”
Durante i trenta minuti di passeggiata quotidiana per raggiungere lo skatepark – racconta –, attraversa le strade dove solo qualche mese prima passava le giornate a chiedere l’elemosina.
— Guarda le immagini: alcune bambine afghane hanno deciso di sfidare i divieti della società sugli skateboard, grazie a una Ong che promuove la loro crescita ed educazione
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