Quando Mazen entrò in quella prigione di Damasco, in Siria, all’inizio del 2012, sapeva cosa gli sarebbe successo.
Mazen Hamadeh, 40 anni, è un cittadino siriano di Deir al-Zour, città nella parte orientale della Siria, ed ex tecnico di Schlumberger, una delle più grandi società di servizi petroliferi al mondo. Aveva già vissuto una volta, nel 2007, l’esperienza di una prigione siriana, quando fu arrestato insieme a un gruppo di colleghi perché chiedeva più diritti per i lavorativi.
Ma questa volta la situazione era molto diversa. Era il 2012, il secondo anno dall’inizio della rivoluzione siriana.
“Io appartengo a una famiglia di impostazione politica di sinistra”, racconta Mazen a TPI. “I miei fratelli sono stati arrestati dopo aver partecipato nel 2005 alla Dichiarazione di Damasco insieme ad altri intellettuali e attivisti siriani. Mi ricordo perfettamente quando un uomo della sicurezza venne a casa nostra e arrestò i miei fratelli”.
Quando iniziò la rivolta popolare nel marzo 2011, Mazen e alcuni suoi amici erano tra i primi fondatori di un movimento pacifista nella città di Deir al-Zour.
Con l’inizio delle uccisioni di attivisti e intellettuali coinvolti nelle manifestazioni, Mazen si trasferì a Damasco per scappare dalla difficile situazione che si era creata. Arrivato nella capitale, ha iniziato a lavorare nel settore degli aiuti umanitari. Qui il suo compito principale era fornire medicine agli abitanti di Daraya, cittadina a pochi chilometri a ovest di Damasco che il regime siriano aveva iniziato ad assediare.
Mazen però aveva un brutto presentimento, quello di poter essere fermato dalle autorità. Questo non gli impedì di continuare il suo lavoro, ma l’ora dell’arresto arrivò molto prima di quanto immaginasse.
Dal bar alla camera di tortura
Nel marzo 2012, mentre Mazen si trovava in un bar nel quartiere Saruja a Damasco, alcuni agenti di sicurezza fecero irruzione e lo arrestarono. Lo caricarono su un auto e lo portarono all’aeroporto militare di Mazzeh.
Qui Mazen fu denudato e picchiato brutalmente con bastoni di plastica, per due ore consecutive. Questa brutale accoglienza era chiamata dagli agenti la “festa di ricevimento”.
“Usavano mani, piedi e bastoni. Cercavo di proteggere il corpo e il viso il più possibile, ma mi sembrava praticamente impossibile riuscire a sopravvivere a quei maltrattamenti”, spiega Mazen.
Lui e gli altri prigionieri furono messi in un palazzo di due piani. Erano presenti circa 200 prigionieri in ogni stanza. I metodi di tortura usati dalle forze di sicurezza cambiavano ogni giorno: picchiavano i detenuti con bastoni, gli gettavano acqua sporca addosso mentre mangiavano, oppure li facevano stare fermi in piedi per ore.
Dal piano superiore del palazzo si sentivano nitidamente le urla delle donne imprigionate. Questa situazione è andata avanti per 15 giorni, fino a quando non sono iniziati gli interrogatori.
“L’investigatore era un colonnello. Dopo avermi chiesto le generalità, mi diede 10 minuti per confessare di aver ammazzato dei membri dell’esercito siriano”, dice Mazen. “Erano cose che chiaramente non avevo fatto, ma mi obbligò a confessare comunque. Quando io rifiutavo, venivo brutalmente maltrattato. Più di quanto potessi immaginare”.
Poi fu portato in una camera, la cosiddetta “stanza della tortura”. Gli ruppero alcune ossa, gli legarono le mani e lo appesero al soffitto a quaranta centimetri da terra.
“I risultati di quella tortura sono ancora visibili sul mio corpo. Mi picchiarono con qualsiasi cosa che trovavano. Iniziarono con dei bastoni e poi con degli attrezzi affilati”, racconta l’uomo. “Dopo mi gettarono anche dell’olio bollente addosso e spensero le loro sigarette sul mio corpo per poi infilarmi un sottile oggetto nel pene. Il dolore era insopportabile. Alla fine, accettai di confessare e di dire ciò che volevano sentirsi dire. Avrei preferito essere ucciso immediatamente pur di non dover sopportare quelle atroci torture”.
Quando fu portato nuovamente dall’investigatore, gli fu chiesto se fosse stato colpevole di qualche crimine. Mazen gli rispose: “Scriva quello che vuole e io firmerò”.
Il trasporto nell’ospedale-mattatoio
Dopo le “confessioni”, Mazen fu portato in una stanza di quattro metri quadrati con altri undici prigionieri. Rimase in quella stanza per due settimane per poi venire trasportato in un ospedale militare, che in realtà si era trasformato in una prigione.
“Posso dire che era un vero e proprio mattatoio, non un ospedale. Mi legarono con altri tre prigionieri a un letto per cinque giorni”, spiega Mazen. “Non dimenticherò mai più il giorno in cui domandai a un militare se era possibile andare in bagno. Lui mi portò davanti alla porta del bagno, la aprì e io vidi tre corpi ammassati uno sopra l’altro. Erano deformati e gli effetti delle torture erano chiaramente visibili sul loro corpo. Il militare che mi aveva portato al bagno era dietro di me e rideva mentre mi diceva: ‘Devi urinargli sopra, arriverà il giorno in cui qualcun altro urinerà sopra il tuo di corpo’”.
Ammazzare la gente in quella sorta di “ospedale” era una cosa giornaliera. Un giorno, un detenuto fu ucciso perché era un dissidente politico: fu massacrato con una baionetta.
“Tutti erano coinvolti nelle uccisioni: detenuti, soldati, dottori e anche infermiere. Nessuno veniva risparmiato”, racconta Mazen. “L’uccisione non era granché organizzata, non vi era alcun piano di procedimento. Era fatto dove capitava, anche davanti a tutti. Quando scattava l’ora di un’uccisione, gli esecutori arrivavano ubriachi urlando: ‘Il tribunale divino vi ha condannati a morte’”.
Il processo più veloce della storia
Cinque giorni dopo, Mazen fu trasferito al dipartimento della polizia militare, dove rimase rinchiuso in una cella per altri cinque giorni. Dopo fu spostato in una prigione civile dove rimase per tre mesi. In seguito fu portato al tribunale essere processato. Fu il processo più veloce della storia.
“Il giudice mi chiese delle ‘confessioni’ che feci all’investigatore. Gli mostrai il mio corpo massacrato dagli effetti delle torture e gli dissi che ammisi quei reati contro la mia volontà e soprattutto per evitare di morire”, racconta Mazen. “Il giudice mi disse molto rapidamente che ero libero di andare. Non riuscivo a crederci. Mi trovavo davanti alla morte solo pochi giorni prima e tutto d’un tratto ero un uomo libero. Era il 15 settembre 2013 quando fui rilasciato”.
Una settimana dopo, Mazen se ne andò e intraprese un viaggiò verso la città di Raqqa con l’aiuto di alcuni amici, dove lo stavano aspettando i suoi fratelli. Dopo il suo arrivo nella città, i suoi fratelli lo portarono a Deir al-Zour, che in quel periodo era sotto il controllo dell’Esercito Siriano Libero (Esl). Mazen non riuscì a credere ai suoi occhi quando vide la sua città completamente distrutta.
“Era quasi tutta rasa al suolo e i gruppi estremisti – compreso l’Isis – continuavano a crescere e ad aumentare il loro controllo”, racconta l’uomo. “Io cercai con alcuni amici di ripristinare il movimento rivoluzionario, ma non ci riuscimmo. L’assassinio di attivisti da parte del sedicente Stato islamico o di altri gruppi non sembrava finire. Ogni giorno, uno del nostro gruppo di attivisti veniva ucciso e alla fine presi la decisione di andarmene da casa e di lasciare la Siria”.
All’inizio del 2014, Mazen superò il confine siriano-turco per arrivare a Istanbul, dove un amico gli diede alloggio per poi ripartire verso l’Europa. Attraversò il mare che separa la Grecia dalla Turchia e poi quello che divie la Grecia dall’Italia. Arrivato a Bari, prese un mezzo di trasporto verso i Paesi Bassi.
“Ho deciso di andare lì per molte ragioni”, dice Mazen. “Una di queste è la natura che c’è in quel paese. Mi ricorda molto quella della mia città Deir al-Zour, piena di fiumi e di alberi. Ma soprattutto perché mia sorella vive là con suo marito e questo mi dava l’idea di non essere completamente solo”.
Oggi Mazen abita a Hillegom, un paese olandese vicino ad Amsterdam. Nonostante le atrocità subite, è ottimista per il suo futuro e insiste nel voler far ritorno un giorno nel suo paese.
“La Siria ritornerà a essere la Siria”, conclude l’uomo. “Tutti i siriani devono ritornare a casa propria. La mia permanenza qua è temporanea. Faccio quello che posso per informare le persone che vivono qui sulla situazione attuale nel mio paese. Alla fine, io lo so, ritornerò. Di questo ne sono certo”.
A cura di Ghaith Alhallak
Leggi l'articolo originale su TPI.it