“Mi sveglio spesso la notte con il fragore delle loro risate che torna nei miei incubi. ‘Sharmuta, mi ripetevano, donnaccia, eccoti la libertà che volevi’. Io non avevo più nemmeno la forza per piangere o per cercare di coprirmi. Sentivo solo le loro risate, il suono delle fotocamere dei telefonini e i calci”. Fadila parla senza guardarmi mai, lo sguardo fisso sulla finestra.
Sembra che dietro quel vetro riveda come in un film gli orrori che ha subito e cerchi di evadere. È una giovane di 24 anni, originaria della città di Homs, che incontro al confine turco-siriano nella città di Reyhanli, all’interno di un centro femminile. Un istituto creato e gestito dalle donne per le donne, che ogni giorno dà consulenza e sostegno alle siriane che sono riuscite ad attraversare il confine e che sono sole e bisognose d’aiuto.
Fadila accetta di incontrarmi ponendo un’unica condizione, l’assoluto anonimato. Il suo calvario è iniziato nel 2011, quando aveva solo 18 anni ed era iscritta al primo anno della facoltà di Lettere. Voleva diventare una reporter e coltivava la passione per la fotografia.
Quando sono iniziate le prime manifestazioni antigovernative nella sua città, è entrata a far parte di un gruppo di giovani oppositori che si dedicava alla documentazione dei cortei e al racconto in rete delle proteste. Usava un falso profilo, ma in molti la conoscevano, tanto che un giorno è stata contattata da un’emittente inglese per una corrispondenza in diretta da una manifestazione. Quella sera stessa Fadila è stata tratta in arresto mentre rientrava a casa. “Sono stata portata in un commissariato e lì è iniziato il mio incubo”.
Fadila parla degli interrogatori sotto tortura e delle pessime condizioni di detenzione con un tono di voce pacato e fermo. “Volevano costringermi ad affermare che ero una terrorista, ma io ero solo una reporter. Ogni volta che si apriva la cella tremavo. Il quarto giorno mi hanno condotta in una stanza e mi hanno detto che dovevo farmi la doccia davanti a loro. Io mi sono rifiutata e mi hanno picchiata e spogliata. Poi mi hanno dato dei vestiti puliti e mi hanno detto di comportarmi bene perché ero stata scelta. Non capivo cosa intendessero.
Speravo che mi conducessero davanti a un giudice o un avvocato, invece mi sono trovata nella stanza di un capo militare. Questo mi ha squadrata e si è complimentato con i suoi uomini, dicendo che andavo bene. Lì ho sentito cedermi le gambe. Ha abusato di me per tre giorni. Io ero ancora vergine. Poi sono venuti i suoi uomini e mi hanno riportata in cella. Hanno detto che ero stata fortunata perché ero carina e quindi il primo era stato un capo. Pensavo che il mio incubo fosse finito lì, invece dal giorno successivo i militari hanno iniziato ad abusare di me in gruppo”.
Dopo il pagamento di un’ingente somma di denaro, i genitori sono riusciti a ottenere per la giovane gli arresti domiciliari. Quando però Fadila ha raccontato alla famiglia cosa aveva passato, annunciando che aspettava un bambino e che ormai era già al sesto mese, i genitori purtroppo le hanno dato un dolore che non si sarebbe mai aspettata, persino peggiore dello stupro. Mentre lo racconta i suoi occhi si riempiono di lacrime.
“Mio padre, senza mai guardarmi negli occhi, mi ha detto di preparare le valigie. Ho iniziato a piangere e a pregarlo di non mandarmi mia, ma lui non mi ha ascoltato e se n’è andato. Mia madre mi ha aiutato a preparare le mie cose, senza parlare. Ho cercato un suo abbraccio, una sua parola di conforto, ma nemmeno lei mi ha accolta e capita.
L’auto mi ha condotta al nord, poi mi hanno fatta salire su un pullman che mi ha lasciata al confine e sono entrata in Turchia. Ho dormito in mezzo ai campi per diversi giorni, finché alcuni volontari non mi hanno portata in ospedale. Ho partorito al settimo mese, ma la bimba è nata morta. Forse aveva capito che non la volevo, ma ho pianto quando l’ho vista, perché mi sono sentita come i miei genitori. Invece di accogliere e amare mia figlia, ho scaricato su di lei colpe che non aveva”.
Grazie alla direttrice del centro femminile riesco a contattare anche Munira, che di anni ne ha solo 18. Alle spalle non ha una storia di attivismo o di impegno politico, ma solo i sogni infranti di una bambina diventata donna prima del tempo. Entra accompagnata dalla direttrice e mi fa giurare di non avere telecamere nascoste, perché non vuole che nessuno la riconosca.
La giovane abitava in un villaggio vicino ad Al Raqqa, città tristemente nota come capitale di Daesh, il sedicente Stato islamico. “Quando gli uomini del califfo sono arrivati nel nostro villaggio, in molti credevano che fossero lì per aiutarci. Gli anziani hanno cercato di convincere mio padre a dare me e mia sorella in spose, ma mio padre non ha voluto; eravamo piccole e di quegli stranieri non si fidava. Sono entrati a casa nostra con la forza e hanno portato via me e mia sorella. Ci hanno detto che eravamo diventate le spose dello sheikh e che per questo non potevamo più far vedere il nostro viso ad altri. Ci hanno costrette a indossare il niqab (velo integrale) e a stare sempre chiuse in casa, poi ci hanno separate.
Io avevo solo 15 anni e piangevo sempre, volevo tornare dalla mia famiglia. Un giorno è entrato un uomo che mi ha detto che aveva ucciso mio padre perché considerato traditore, e in quanto figlia di un traditore ero considerata la sua schiava. Poi ha iniziato ad abusare di me. Mi sembrava impossibile che queste cose potessero accadere in Siria. Sono rimasta in quella prigione per alcune settimane.
Ho cercato di fuggire e persino di suicidarmi, ma non ne ho avuto la forza. Non so quanto sia durata la mia prigionia. Mi hanno liberata alcuni uomini che mi hanno chiamata sorella; erano militari dell’Esercito Siriano Libero. Sono tornata a casa stremata, ho abbracciato mia madre, ma lei mi ha respinta. Non capivo perché e anche adesso non riesco a crederci. Mi ha detto che non poteva più tenermi con sé perché tutti sapevano che ero stata disonorata e per lei era una vergogna insopportabile. Mi sono sentita pugnalata al cuore. Che colpa avevo io? Non mi restava che fuggire”.
* A cura di Asmae Dachan