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    La cicatrice della diaspora siriana in una mostra fotografica. Alessio Cupelli: “Volevo andare oltre la denuncia”

    La fotografia citata nell'intervista. ©Alessio Cupelli

    L'intervista al fotografo che ha raccontato da Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia, le storie dei siriani in fuga dalla guerra

    Di Stefano Bocconetti
    Pubblicato il 17 Set. 2019 alle 12:13 Aggiornato il 10 Gen. 2020 alle 20:13

    Mostra fotografica NADAB – Immagini dalla diaspora siriana con gli scatti di Alessio Cupelli

    Mostra fotografica NADAB (in arabo ‘la cicatrice’) Immagini dalla diaspora siriana – Dicono che se sai cogliere aspetti che altri non vedono hai già fatto metà del tuo lavoro. Vale per tutto, per tutti. Ma vale soprattutto per un fotografo. E questo è proprio il lavoro di Alessio Cupelli, 38 anni. È a casa sua e nello schermo del computer c’è quell’immagine che vedete qui a fianco. Un uomo anziano ma non vecchio, con un’età indefinita. “E non mi dire che non ricorda Sean Connery, sembra quasi citarlo”.

    Si parla di una foto, soltanto di una foto, fra le tante esposte all’ex Gil di Roma. Quella che Alessio Cupelli ritiene la più significativa.

    Perché proprio questa? “Perché ho la sensazione che quest’uomo esprima, con la sua posa naturale, col suo sguardo, una dignità enorme. Sono convinto che possa essere l’immagine simbolo. Credo che racchiuda, che racconti tutto quel che è successo laggiù. Rende bene la sua storia, quel che è successo”.

    Valle della Bekaa, Libano, 2019 ©Alessio Cupelli

    Già, ma di che si parla? Siamo ad Idomeni, all’inizio del 2016, quasi quattro anni fa. È un nome ormai entrato nell’immaginario collettivo, un villaggio, ai piedi di una collina, al confine fra la Grecia e la Macedonia. Quasi irrintracciabile sulle cartine geografiche, cinque anni fa diventò uno snodo centrale lungo la rotta dei Balcani. I profughi siriani che scappavano da una guerra che ancora non è finita – così come quelli afghani o pakistani –, da quella piccolissima città di confine provavano ad entrare in Macedonia. E da lì, proseguire fino in Germania o nei paesi scandinavi.

    Decidere di seguire quella “rotta”, per chi fuggiva, era una scelta ponderata. La Macedonia – o la Serbia, un po’ più su – non è un paese Schengen ed in caso di fermo si veniva espulsi verso l’Ungheria. Più vicini quindi alla meta finale.

    Berkasovo, confine serbo – croato, 2015. I profughi avanzano a passi lenti tra il fango e il mais 2015 ©Alessio Cupelli

    Ma queste cose ormai le conoscono tutti. Così come tutti sanno che, all’improvviso, alla fine del 2015, la Macedonia decise di chiudere la frontiera. Ed eccoci arrivati alla nostra foto, a quell’uomo un po’ Sean Connery.

    Lui arriva ad Idomeni proprio in quei giorni drammatici. Dove la vita, i progetti, il proprio destino era appeso a “voci”: forse si riapre la frontiera, forse no, forse domani. Magari dopodomani. “Quell’uomo aveva alle spalle già una lunga e sofferta vicenda. Decise di vendere ogni cosa e di far scappare quasi tutta la sua famiglia alle prime avvisaglie della guerra, capendo subito che del suo villaggio siriano di frontiera non sarebbe rimasto più nulla”.

    Valle della Bekaa, Libano, 2017. Ragazza siriana, madre di una bambina apolide. La nascita della bambina, priva di documenti, non è mai stata registrata. ©Alessio Cupelli

    Fa scappare quasi tutta la sua famiglia che riesce ad arrivare in Germania. Quasi tutta. Perché lui non parte subito, deve badare ad un figlio che ha molti problemi. Di mobilità, di attenzione. Resta in Siria finché può. Quando vede che la guerra bussa alle porte di casa, parte.

    E arriva ad Idomeni. Esattamente nei giorni di chiusura della frontiera. Delle frontiere, perché le sbarre si abbassano quasi contemporaneamente sia in Macedonia che in Serbia.

    Irbid, Giordania, 2017. Uomo siriano. In Giordania migliaia di rifugiati vivono in condizioni di povertà e marginalità estreme ©Alessio Cupelli

    Lui arriva lì nei giorni della speranza, noi giorni dell’angoscia. Le vicende – anche queste – sono arcinote: l’interruzione della “rotta” impose a decine di migliaia di persone di fermarsi ad Idomeni. Fu allestito un campo profughi che presto diventò uno sterminato campo profughi, una delle più drammatiche crisi umanitarie nel cuore dell’Europa.

    Il protagonista della foto era lì. Non esattamente nel campo profughi. Perché vecchi rancori e nuovi litigi, l’avevano costretto ad allontanarsi almeno un po’ dai suoi connazionali e trovare rifugio in un vecchio edificio abbandonato. Insieme ad altre famiglie, poco distante dal campo profughi. Esattamente quel muro bianco che fa da sfondo alla foto.

    Campo profughi di Darashakran, Iraq, 2018 ©Alessio Cupelli

    Non è stato facile scattare quest’immagine. “Non mi bastava, e non mi basta, la denuncia: volevo cogliere altro”. Alessio Cupelli voleva cogliere, appunto, la dignità di quell’uomo, costretto in un limbo, dove non si va avanti ma non si può tornare indietro. Dove una nuova vita col resto della tua famiglia sarebbe lì, ottocento chilometri più a Nord, ma dove non puoi andare. Eppure, in queste condizioni, conservi la tua dignità. Una delle poche cose che ti rimangono.

    Valle della Bekaa, Libano, 2017. Catena montuosa dell’Anti-Libano, al confine con la Siria ©Alessio Cupelli

    E allora “non puoi limitarti ad uno scatto: devi passare ore e ore con loro. Con lui. Devi farti accettare, devi provare a stabilire un rapporto di fiducia”.

    Un lavoro che richiede tempo. Il risultato è quello che si vede. Magari per Alessio Cupelli è un po’ più facile che per altri. “Sai – chiosa – vengo da una famiglia che è emigrata in Belgio, mio nonno faceva il minatore”. È nato a Liegi prima che la sua famiglia decidesse di tornare in Italia. “Conosco quei problemi, so cosa significa migrare”.

    Al-Karak, Giordania, 2017. ragazzo, figlio di una famiglia di pastori nomadi siriani, che ha trovato rifugio nel deserto a sud di Amman ©Alessio Cupelli

    E forse la sua vicenda personale, la sua cultura, la sua storia gli hanno regalato quell’angolo di visuale che gli consente di vedere “aspetti” che altri non colgono. Gli consente quel bianco & nero – la cifra del suo linguaggio – mai convenzionale. Mai banale, mai artefatto.

    Un fotografo “non embedded”, insomma. Per una foto “non embedded”.

    La mostra fotografica NADAB (in arabo ‘la cicatrice’) – Immagini dalla diaspora siriana con gli scatti di Alessio Cupelli, e curata da Chiara Capodici, sarà esposta dal 18 al 28 settembre a WeGil, Largo Ascianghi 4, a Roma, lo spazio della Regione Lazio gestito da LAZIOcrea, con il supporto di Banca Etica. La mostra presenta un’ampia selezione della ricerca fotografica sulla diaspora siriana condotta in questi anni dal fotografo Alessio Cupelli al fianco degli operatori di INTERSOS impegnati nei Balcani, in Grecia, in Libano, in Giordania e in Iraq.

    Mitilene, Grecia, 2019. Ragazzo siriano nuota nel porto di Mitilene ©Alessio Cupelli
    Idomeni, Grecia, 2015. Una donna siriana osserva la rivolta nel campo di Idomeni. ©Alessio Cupelli
    Lesbo, Grecia, 2019. Giubbotti di salvataggio in una discarica ©Alessio Cupelli
    La nonna di Idomeni che ogni giorno cucina per i migranti
    Come vivono i migranti dopo lo sgombero del campo profughi di Idomeni
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