La finestra da cui Omar è oggi affacciato ha visto crescere questo ragazzo oggi spaesato e confuso. Omar è diventato un uomo sotto i bombardamenti.
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“La rivoluzione è scoppiata quando avevo 17 anni”, racconta l’ormai 23enne attivista umanitario siriano, mentre assiste da quel che rimane di casa sua, all’evacuazione forzata di al-Waar, uno dei sobborghi ribelli di Homs, nella Siria centrale.
Al-Waar è stato assediato per anni dagli Hezbollah, le milizie libanesi vicine all’Iran e alle forze governative. Il quartiere si è definitivamente arreso, nei mesi scorsi, dopo l’intervento militare e politico delle forze russe, alleate di Damasco. Prima che le inedite e massicce proteste popolari del 2011 – “l’inizio della rivoluzione” – lo travolgessero, Omar stava finendo la scuola.
Di fronte non aveva molte prospettive. E anche oggi, non ha molta scelta: lasciare per sempre la sua terra d’origine o “rimanere in un continuo stato di umiliazione?”.
Prima dello scoppio delle violenze, sei anni fa, suo fratello più grande aveva da poco aperto un negozio di telefoni cellulari, una delle occupazioni più frequenti per i giovani nella Siria pre-guerra. Insisteva affinché Omar lo aiutasse con il lavoro, ma il fratello non ne era entusiasta. Ma anche continuare a studiare all’università era una scelta che lo attraeva solo perché lo avrebbe fatto uscire da al-Waar.
Il dilemma di Omar: rimanere nella sua casa natale, sotto la costante minaccia di chi sembra aver stravinto la guerra. O abbandonare tutto, lasciare sorelle, madre, moglie e figli, ed esser deportato lontano. In un’altra Siria, ancora non controllata dai vincitori di ieri e di oggi. Sperando di ricostruire una vita meno disperata di quella di adesso e di poter così richiamare il resto della sua famiglia.
Nonostante la guerra e la precarietà, Omar due anni fa si è sposato. Metter su famiglia è stato per lui – come per moltissimi altri siriani – un atto alla ricerca di certezze, forse disperato o forse di resistenza. Da fuori si fa fatica a immaginare come una giovane coppia possa soltanto pensare di mettere al mondo dei figli sotto le bombe e in una situazione d’assedio, in cui spesso e a lungo mancano l’acqua, il pane, il latte.
Omar lo ha fatto. E da quattro anni riesce a mantenere la famiglia. Lavora come coordinatore della distribuzione di aiuti alle persone giunte ad al-Waar da altre zone disastrate e assediate. Ma la resa, imposta dalle forze russe, impone adesso a Omar e a molti altri attivisti umanitari quella che lui stesso definisce “la scelta più difficile della mia vita”.
Dalla finestra Omar osserva in silenzio chi tra i suoi vicini raccoglie quel poco che ha per prepararsi a partire. Per l’ultimo viaggio, senza poter sperare di tornare ad al-Waar.
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*Di Lorenzo Trombetta, corrispondente Ansa per il Medio Oriente basato a Beirut, con Good Morning Syria