“La Siria”, disse una volta Hafez al-Assad a un amico, “è una giungla e Bashar non è ancora un lupo”. Ci sono voluti quasi trent’anni, violenze e sofferenze indicibili, ma alla fine, con la caduta di Damasco e la fuga del tiranno in Russia, la profezia del padre del dittatore siriano si è avverata e non certo perché il figlio non si sia dimostrato abbastanza sanguinario.
L’inaspettatamente rapida conclusione di 53 anni di brutale oppressione dopo quasi 14 di guerra, che ha fatto giustamente festeggiare i siriani in patria e all’estero, non significa però necessariamente che d’ora in poi il futuro del Paese sarà in mano al suo popolo, anzi. Le maggiori potenze regionali e non solo mantengono una presenza diretta sul campo e diversi gruppi armati, ognuno con una propria agenda, controllano ampie porzioni di territorio. Senza contare gli effetti del possibile ritorno di milioni di rifugiati dall’estero sotto la spinta degli Stati che finora li hanno accolti. L’8 dicembre 2024 è stato senz’altro il giorno della liberazione per la Siria. Resta da vedere se sarà anche l’alba di una rivoluzione attesa da 14 anni o solo un’altra tappa di una tragedia che il mondo periodicamente torna a dimenticare.
Tale padre, tale figlio
Ma riavvolgiamo il nastro. Dopo il golpe del 1963, che portò al potere a Damasco il partito Ba’ath, un secondo colpo di Stato militare e una serie di lotte intestine seguite alle disfatte nella guerra dei Sei giorni contro Israele e del Settembre nero in Giordania ai danni delle organizzazioni palestinesi che appoggiava, Hafez al-Assad instaurò il proprio regime nel 1971 e rimase in sella fino alla morte, avvenuta nel 2000.
Di stirpe alawita e conosciuto all’estero come la “Sfinge di Damasco”, il dittatore siriano riuscì a restare a galla alternando avventure militari, come la guerra dello Yom Kippur, a momenti di negoziato, schiacciando sempre in maniera spietata ogni opposizione, soprattutto quella emersa nella maggioranza sunnita, come nel caso del massacro di Hama del 1982. “Non crede in niente e non è leale con nessuno”, scrisse di lui una volta lo scrittore di origini iraniane Amir Taheri, riportando una conversazione con il premier pakistano Zulfikar Ali Bhutto, che conosceva bene Hafez al-Assad. “Potrebbe essere tuo amico al mattino ma tradirti la sera. Ha solo due obiettivi nella vita: sopravvivere e fare soldi”. Un atteggiamento non solo personale ma politico, mai abbandonato dal figlio.
Dopo la sua dipartita infatti il potere passò al 34enne Bashar, che non era destinato a succedere al padre. Hafez infatti avrebbe voluto lasciare il regime nelle mani del primo figlio maschio Bassil, che nel 1994 perse la vita in un incidente stradale. La seconda scelta poteva ricadere sulla figlia primogenita Bushra, sorella maggiore di Bassil e Bashar, ma difficilmente l’establishment della dittatura avrebbe accettato di sottomettersi alla giovane farmacista. Così, anche a causa dell’ancor più giovane età degli altri fratelli maschi Majd (tra l’altro affetto da turbe mentali) e Maher, l’unica opzione rimase Bashar, che fino alla morte di Basil non si era mai occupato di politica, scegliendo invece di studiare medicina e di trasferirsi a Londra per specializzarsi in chirurgia oculistica. Una formazione che non fu sufficiente a fargli abbandonare i metodi sanguinari adottati dal regime durante la sua tirannia.
Presentatosi da subito come un leader giovane, sempre elegante e con al fianco la moglie Asma, definita da Vogue “la rosa del deserto”, Assad si pose in continuità con la figura del padre come protettore delle minoranze siriane e unica alternativa laica al fondamentalismo. La sua promessa di riforme economiche e sociali per modernizzare la Siria però rimase lettera morta.
I ricevimenti internazionali e gli incontri a Damasco con esponenti della diplomazia mondiale, compreso l’ex segretario di Stato Usa John Kerry, che da presidente del Comitato per le relazioni estere del Senato cenò con il dittatore nella capitale nel 2009, non furono sufficienti a salvare il suo regime dalle proteste della Primavera Araba del 2011, da lui stesso (e dal fratello Maher) represse nel sangue.
Una carneficina che poi sfocerà in una guerra ancora in corso, che finora ha provocato almeno 500mila morti e feriti, 7,2 milioni di sfollati e 5,5 milioni di rifugiati all’estero, e che da allora ha visto l’intervento militare in Siria, a vario titolo e in diversi momenti, di Russia, Iran, Turchia, Stati Uniti, Francia e Regno Unito, oltre al coinvolgimento di gruppi armati come il libanese Hezbollah le formazioni curde e di organizzazioni terroristiche come al-Qaeda e il sedicente Stato islamico (Isis), che non hanno mai abbandonato del tutto il Paese.
Un inferno in cui il regime, appoggiato dal presidente russo Vladimir Putin e dalla Repubblica islamica iraniana, con l’aiuto di Hezbollah e di altre milizie composte da combattenti afghani, iracheni e di altre nazionalità, si è distinto per la brutalità, arrivando persino a usare le armi chimiche contro il suo stesso popolo, guadagnando ad Assad il soprannome di “boia di Damasco”.
Tutto questo però non era bastato a determinare la fine della tirannia, che a fine novembre controllava ancora gran parte della Siria e soltanto l’anno scorso era stata riammessa nella Lega araba, riaprendo persino alcune ambasciate in Europa, Italia compresa. Sono bastati invece una decina di giorni per far cadere Damasco.
Undici giorni fatali
Le prime avvisaglie del crollo erano cominciate il 27 novembre scorso, quando la coalizione “Command of Military Operations” (CMO), un coordinamento di varie milizie guidato dal gruppo jihadista Hayat Tahrir al-Sham, lanciò una grande offensiva contro le forze del regime.
Il primo attacco avvenne sulla linea del fronte tra la regione nord-occidentale di Idlib, controllata dall’opposizione e dalle milizie filo-turche, e il vicino governatorato di Aleppo, la seconda città del Paese, caduta tre giorni dopo. Quindi è stata la volta delle maggiori località siriane sulla via per la capitale: Hama, Homs e persino la città meridionale di Deraa. Nemmeno l’annunciato riposizionamento dell’esercito di Assad nella vicina provincia di Sweida è servito a nulla. Con la caduta di Damasco infatti, i ribelli sono entrati persino nelle città sulla costa nord-ovest del Paese, dove si trovano le basi russe di Khmeimim e Tartus, e dove risiede la minoranza alawita, da sempre fedele agli Assad.
Questa irresistibile cavalcata è stata guidata dall’ex membro di al-Qaeda e del sedicente Stato islamico (Isis) e attuale leader di Hayat Tahrir al-Sham, Ahmed Hussein al-Shar’a, nome di battaglia: Abu Mohammad al-Jolani, su cui negli Stati Uniti pende tuttora una taglia da 10 milioni di dollari per terrorismo.
Ma com’è possibile che una milizia con una forza stimata in poco meno di 10mila uomini sia riuscita a sopraffare un regime al potere da mezzo secolo, con almeno 130mila soldati regolari e l’appoggio militare di Russia e Iran? Forse, come ha spiegato sui social il presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, è stato proprio il mancato sostegno di Mosca e Teheran a risultare fatale ad Assad.
“Russia e Iran sono in uno stato di debolezza in questo momento, l’una a causa dell’Ucraina e di una pessima economia, l’altro a causa di Israele e dei suoi successi militari”, ha scritto il magnate newyorkese nel giorno della caduta di Damasco. Il regime era infatti debole e non poteva contare più nemmeno sull’appoggio degli alleati libanesi di Hezbollah, duramente colpiti dallo Stato ebraico né sulle milizie filo-iraniane in Iraq, che non si sono mosse dalle proprie posizioni per, a detta loro, evitare di finire nella “trappola israeliana”.
Se la Russia, l’Iran e gli altri alleati di Assad non sono potuti intervenire in suo aiuto come nel 2015, stavolta Tel Aviv ci ha messo del suo: per mesi ha continuato infatti a bombardare chirurgicamente Damasco e altri obiettivi del regime e dei suoi accoliti, indebolendone ulteriormente le difese. Anche la Turchia ha fatto la sua parte: da sempre nemica degli Assad, Ankara ha finanziato, armato e informato con l’intelligence diversi gruppi sul campo, impegnati a dire il vero più contro i curdi che contro Damasco ma risultando comunque decisiva nell’ultima avanzata dei ribelli su Aleppo, che ha portato poi alla caduta della capitale (un risultato forse insperato).
Ma il fattore determinante è stata la mancata volontà di combattere dimostrata dalle stesse forze del regime. Attanagliata dalla povertà e da un’economia sempre più dipendente da traffici illeciti, come quello dello stupefacente Captagon, Assad è diventato ancora più impopolare, persino tra soldati e poliziotti, che hanno abbandonato in massa i propri posti. D’altronde l’aveva spiegato nella sua intervista alla Cnn lo stesso capo jihadista Jolani: “I semi della sconfitta del regime sono sempre stati al suo interno… gli iraniani hanno tentato di far rivivere il regime, prendendo tempo, e in seguito anche i russi hanno cercato di sostenerlo. Ma la verità rimane: questo regime è morto”.
Le forze del regime però non sono fuggite solo davanti ai ribelli del nord. Mentre cadeva Damasco infatti, Israele ne approfittava per occupare “temporaneamente” una zona cuscinetto demilitarizzata sulle alture del Golan, rimasta sguarnita. Le Forze Democratiche Siriane (SDF), appoggiate dagli Stati Uniti e che controllano il nord-est del Paese, hanno invece preso di fatto il controllo di tutto il confine orientale, entrando a Deir Ezzor.
Il tutto mentre nella capitale venivano liberati i prigionieri politici, alcuni rinchiusi da decenni, nel famigerato carcere di Sednaya, ribattezzato il “mattatoio umano”, e nella maggior parte delle altre città della Siria, come in Turchia e Libano, si festeggiava la caduta del tiranno, con cortei per le principali vie urbane e persino le campane delle chiese che suonavano a festa. Ma cosa succederà ora in Siria?
Il grande vuoto di potere
Non tutto il regime è crollato, o meglio non tutti i suoi esponenti sono in fuga. Subito dopo l’arrivo dei ribelli a Damasco infatti, il premier nominato da Assad, Mohammad al-Jalali, ha aperto a un “pacifico passaggio di potere”, dicendosi pronto a collaborare con qualsiasi nuova “leadership” scelta dal popolo.
“Questo Paese può essere un Paese normale, che sta costruendo buone relazioni con i suoi vicini e con il mondo (…) ma questa questione sarà responsabilità di qualunque leadership il popolo siriano sceglierà, e noi siamo pronti a collaborare e a fornire loro tutte le strutture possibili”, ha dichiarato al-Jalali in un video pubblicato su Facebook. Un appello raccolto immediatamente dal leader di Hayat Tahrir al-Sham, Jolani, che ha invitato i suoi combattenti a non avvicinarsi alle sedi delle istituzioni della capitale fino al “passaggio di consegne ufficiale”.
“Le istituzioni statali siriane saranno supervisionate dall’ex primo ministro siriano Mohammad Jalali, fino al passaggio legale dei poteri”, ha scritto il leader di Hayat Tahrir al-Sham, Jolani, in un comunicato diramato su Telegram e firmato con il suo vero nome, Ahmed Hussein al-Shar’a, che vietava alle forze ribelli a Damasco di avvicinarsi agli edifici pubblici e di sparare colpi in aria, a tutela delle proprietà dello Stato e allo scopo di garantire una “transizione ordinata”, che dovrebbe durare 18 mesi. Lo stesso capo jihadista aveva promesso giorni prima che i ribelli avrebbero rispettato le minoranze etniche e religiose del Paese, composto in maggioranza da arabi e musulmani sunniti, che convivono da secoli con curdi e musulmani sciiti e alawiti, oltre a cristiani, drusi, yazidi e altre confessioni.
A dire il vero però il suo primo discorso, pronunciato non in uno studio televisivo né dal palazzo presidenziale ma dalla Grande Moschea degli Omayyadi a Damasco ha lasciato più dubbi che certezze. “Questa vittoria, fratelli miei, è una vittoria per l’intera nazione islamica”, ha detto Jolani, che ha poi corretto il tiro, rivolgendosi a tutti i siriani. “Questa vittoria, fratelli miei, per grazia di Dio Onnipotente, arriva grazie ai sacrifici dei martiri, delle vedove e degli orfani. Questa vittoria, fratelli miei, è giunta attraverso la sofferenza di coloro che hanno sopportato la prigionia”.
Malgrado le aperture di Teheran, la cui ambasciata a Damasco è stata la prima a essere saccheggiata dai ribelli, il leader jihadista ha però voluto subito mettere le cose in chiaro. “Questo trionfo, fratelli miei, segna un nuovo capitolo nella storia della regione, una storia piena di pericoli che hanno reso la Siria un parco giochi per le ambizioni iraniane, diffondendo settarismo, fomentando corruzione”, ha aggiunto Jolani. “La Siria sta venendo purificata”.
Alle parole però dovranno seguire i fatti e non è assolutamente detto che sarà Hayat Tahrir al-Sham a controllare il Paese. Questa fazione infatti resta la più grande e organizzata, avendo governato per anni gran parte della provincia settentrionale di Idlib prima di questa offensiva. Ma altri gruppi che hanno preso parte alla cosiddetta “Operazione Deterrenza dall’Aggressione”, che ha portato alla caduta del regime di Assad, possono dire la loro: tra cui il Fronte Nazionale per la Liberazione, Ahrar al-Sham, Jaish al-Izza e il Movimento Nour al-Din al-Zenki, senza dimenticare le milizie sostenute dalla Turchia sotto l’egida del sedicente Esercito Nazionale Siriano, in perenne lotta contro i curdi delle Sdf.
Il pericolo di nuove violenze in Siria non viene però solo dalle diverse fazioni armate ma anche dalla presenza diretta delle potenze regionali e non solo. In primis di Ankara, che mantiene uno schieramento significativo al confine con il Paese arabo, soprattutto in funzione anti-curda. Quindi degli Stati Uniti, che appoggiano proprio le Sdf con un migliaio di forze speciali tra la base di al-Tanf e l’est della Siria, ufficialmente per impedire la rinascita dell’Isis. Infine della Russia, che ha ancora circa 4.000 soldati in Siria, e di Israele, che negli ultimi giorni non solo ha occupato un’altra parte del Golan ma ha continuato i raid contro presunti depositi di armi chimiche ammassate dal regime. Insomma, la svolta c’è stata ma la pace sembra tutt’altro che vicina.
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