Freetown – “Sopravvivere all’ebola non significa guarire. Quando sei un sopravvissuto non combatti soltanto lo stigma sociale ma, ogni giorno, devi lottare per convivere con indelebili ferite interiori”. È una battaglia senza sosta, quella di Hassan Kamara, portavoce dell’Associazione dei Sopravvissuti all’Ebola in Sierra Leone (SLAES).
Abbiamo incontrato Hassan – soprannominato “Daddy” da tutta la sua comunità – nel villaggio in cui vive, a Freetown. Siamo andati da lui il 7 novembre, giorno in cui si celebra il decimo anniversario dalla fine ufficiale della pandemia in Sierra Leone, per parlare del lancio della nuova campagna di vaccinazione preventiva contro l’ebola che Gavi, The Vaccine Alliance lancerà il 28 novembre. La campagna, la cui durata sarà di tre settimane, sarà dedicata inizialmente a circa 20,000 persone, tra operatori sanitari e categorie che lavorano in prima linea nelle emergenze in vari distretti del Sierra Leone.
“La vaccinazione preventiva contro l’ebola è fondamentale, anche per la stabilità e la salute mentale delle persone,” commenta Hassan. “È un passo importante verso una sanità accessibile e sostenibile, un obiettivo per il quale mi batto quotidianamente, specialmente a beneficio dei sopravvissuti”.
In Sierra Leone, nel 2014, l’ebola ha ucciso oltre 3.500 persone e circa il 7% degli operatori sanitari; secondo la Banca Mondiale, le perdite economiche registrate dal Sierra Leone e dai Paesi confinanti (Guinea e Liberia) si aggirano intorno a 3 miliardi di dollari.
Numeri che hanno messo in ginocchio il Paese, e che hanno spinto Gavi – che dal 2001 ha investito più di 200 milioni di dollari in varie campagne vaccinali in Sierra Leone – ad attivarsi per rendere disponibile il vaccino. Dopo alcuni progetti pilota, già nel 2021 un primo vaccino a doppia dose è stato distribuito agli operatori sanitari del Sierra Leone.
Ervebo, vaccino che oggi Gavi si appresta a distribuire per supportare la prevenzione e ridurre i rischi di eventuali contagi nel caso di una nuova pandemia è invece monodose. Prodotto da Merck, protegge dalla variante “Zaire” e la sua efficacia (quasi 100%) è già stata testata nel 2016, quando Gavi stipulò un Advance Purchase Commitment (APC) con la casa farmaceutica per distribuire 300,000 dosi “test” nei Paesi che erano all’epoca impattati dalla pandemia.
“Coloro che riceveranno il vaccino saranno anche i soggetti di uno studio sull’immunogenicità,” spiega il Dr. Desmond Maada Kangbai, epidemiologo presso il Ministero della Salute. “Studieremo le reazioni a lungo termine del vaccino, seguendo i pazienti per oltre due anni e osservando anche le differenze rispetto alle somministrazioni del 2021″.
Fino al 28 novembre, i vaccini saranno conservati a -80 gradi presso gli uffici dell’Extended Program on Immunization (EPI) a Freetown. Il Ministero della Salute sfrutterà queste settimane per completare la formazione degli operatori che gestiranno i vaccini, trasportandoli nei distretti interessati dalla campagna.
“In questi anni, la collaborazione con Gavi si è rivelata essenziale,” spiega il Dr. Mohammad Alex Vandi, Vicedirettore esecutivo della National Public Health Agency. “Tuttavia, eventi come la pandemia da ebola ci hanno insegnato anche l’importanza di poter essere autosufficienti, stimolandoci ad aumentare il numero di epidemiologisti locali e a digitalizzare il sistema sanitario: oggi, siamo uno dei pochi Paesi in Africa ad aver digitalizzato completamente oltre 1,500 strutture sanitarie”.
Tecnologia, partnership e accessibilità della cura: queste le tre parole chiave per il Viceministro della Salute, il Dr. Charles Senessie: “Grazie alla tecnologia e ai nostri partner internazionali siamo stati in grado di sviluppare notevolmente il nostro sistema sanitario; vediamo ogni giorno come le vaccinazioni migliorino la qualità della vita dei nostri cittadini, e ci poniamo ora l’obiettivo di rendere la sanità sempre più inclusiva e accessibile, specialmente a donne e bambini. È necessario avere un approccio olistico, che consideri lo sviluppo sostenibile del sistema a 360 gradi”.
Un approccio vincente, quello scelto dalle istituzioni locali, toccato con mano nel corso del nostro viaggio attraverso il Sierra Leone, da Freetown a Kenema, e poi ancora a Kailahun, in prossimità del confine con la Guinea.
In un Paese afflitto da pandemie, l’attenzione verso la prevenzione di genere è quasi sorprendente. Nella città di Kenema abbiamo accompagnato i medici del Kenema Government Hospital al distretto scolastico locale, per la somministrazione del vaccino anti-HPV alle studentesse di quinta elementare della St James School. Un forte segnale dell’attenzione alla tutela delle bambine e delle ragazze.
“Lavoriamo di concerto, insieme alle istituzioni e alle famiglie, per educare le studentesse a conoscere ed evitare i rischi del papillomavirus,” spiega Gladys, la loro insegnante. “È essenziale che le ragazze, e i ragazzi, comprendano l’importanza di prevenire e proteggersi – anche al fine di favorire la loro scolarizzazione”.
Mentre le insegnanti e le infermiere ci descrivono questo impegno collettivo, guidato dalla First Lady Dr. Fatima Maada Bio – che, dal suo insediamento nel 2018, ha promosso la campagna “Hands of Our Girls”, mirata all’emancipazione femminile e a combattare la violenza di genere – le bambine si preparano a ricevere il vaccino, una dopo l’altra; intimorite ma emozionate, indossano la divisa scolastica blu e tengono ben saldo il loro libretto vaccinale. Dopo l’iniezione, per tutti, è un momento di gioia, di scherzi, di allegria; i bambini, bonariamenti gelosi delle attenzioni dedicate alle compagne, si domandano quando anche loro potranno esser vaccinati.
A guidarci in questo percorso è il Dr. Donald Grant, membro dell’equipe medica che ha formulato la prima diagnosi ufficiale di ebola in Sierra Leone, curata proprio a Kenema. Con commozione, il Dr. Grant ci accompagna a visitare la tomba del suo mentore, il Dr. Sheik Humarr Khan, Responsabile del Reparto dedicato alla Febbre di Lassa, morto nel 2014 a causa dell’ebola, dopo aver salvato oltre cento vite dal virus.
“Abbiamo perso molti colleghi a causa dell’ebola,” racconta il Dr. Grant. “È a loro che dobbiamo esprimere la nostra gratitudine per ogni vita salvata; sono loro che ci danno la forza di continuare a lottare per salvaguardare la salute delle nostre comunità”.
Tra le vite salvate dall’equipe guidata dal Dr. Khan c’è il primo caso ufficiale di ebola diagnosticato in Sierra Leone, Victoria Yilliah, che incontriamo a Kailahun insieme a suo marito Anthony.
Victoria, con uno sguardo fiero e un’eleganza naturale rallegrata dai colori del suo abito, rappresenta un vero simbolo di speranza: è una donna che ha scelto di vivere, non sopravvivere. Un emblema delle rinacita, dopo il famigerato 2014.
“All’epoca, aspettavo il mio primo figlio. Incominciai a sentirmi male, ad avere la febbre e capii subito che c’erano serie complicazioni. Mi portarono nel reparto maternità dell’ospedale di Kailahun dove, giorno dopo giorno, assistevo al peggioramento e alla morte di altre donne incinte. Non si capiva perché arrivassero in ospedale sempre più donne e cosa causasse il loro malessere, non si capivano le ragioni di tante morti. Il mio caso sembrava essere meno grave rispetto alle altre, così mi mandarono a casa dopo alcuni giorni. Ma quello fu l’inizio del mio calvario”.
In preda all’emozione, Victoria racconta di come, anche dopo il rientro a casa, i suoi malesseri non dessero segno di cessare. Così suo marito, all’epoca studente universitario a Kenema, chiese che la moglie fosse trasferita al Kenema Government Hospital, dove fu ammessa il 19 maggio 2014. Fu soltanto dopo cinque giorni, e una serie di test per altri virus, che a Victoria fu fatto il test per l’Ebola.
“Quando risultai positiva, scoppiò il panico. Nessuno, neanche i medici, erano pronti ad affrontare questo sconosciuto nemico: fino a quel momento, ero stata toccata anche senza guanti, dalle infermiere… fu un effetto valanga”.
Grazie al Dr. Khan e alla sua equipe, Victoria riuscì a guarire. Oggi, è madre e segue un corso da infermiera. Ma le cicatrici, come per Hassan, non possono essere cancellate. “Nessuno, a meno che non lo si abbia vissuto in prima persona, può realmente immaginare cosa significhi tornare a casa dall’ospedale e scoprire di aver perso ventuno familiari, tra cui una madre e una sorella. Siamo sopravvissuti, ma restiamo vittime. Questo nuovo vaccino, la possibilità di poter prevenire, rappresenta una nuova luce, fuori da un tunnel lungo troppi anni”.