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    Perché questi sette paesi hanno votato con Usa e Israele per Gerusalemme capitale

    Credit: Afp

    Solo nove paesi hanno espresso voto contrario alla risoluzione Onu che ha bocciato la decisione di Trump su Gerusalemme: oltre naturalmente a Stati Uniti e Israele, vi sono Guatemala, Honduras, Repubblica di Palau, Isole Marshall, Nauru, Stati federati della Micronesia e Togo

    Di Giuseppe Loris Ienco
    Pubblicato il 22 Dic. 2017 alle 17:33 Aggiornato il 12 Set. 2019 alle 00:37

    Il 21 dicembre l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato in larga maggioranza a favore della risoluzione, non vincolante ma dall’enorme peso politico, che rifiuta la decisione del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, di riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele.

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    128 stati membri, tra i quali Italia, Francia, Regno Unito, Germania e Russia, hanno bocciato la linea della Casa Bianca sulla delicatissima questione palestinese, preferendo rinviare la decisione sullo status della città sacra per tutte le religioni abramitiche a futuri negoziati da avviare quando il processo di pace sarà abbastanza maturo da permetterlo.

    Solo nove paesi hanno espresso voto contrario alla risoluzione: oltre naturalmente a Stati Uniti e Israele, vi sono Guatemala, Honduras, Repubblica di Palau, Isole Marshall, Nauru, Stati federati della Micronesia e Togo.

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    Tre di questi ultimi sette paesi sono ex colonie statunitensi che tuttora vivono sotto l’influsso di Washington.

    Credit: UN

    La Repubblica di Palau è costituita da un gruppo di isole al largo dell’oceano Pacifico, a circa 500 chilometri dalle Filippine. Indipendente dal 1994 e con una popolazione di 21.400 abitanti, è uno delle nazioni più giovani e meno popolose del mondo.

    Decisamente più popolati gli Stati federati della Micronesia, che con i loro 104mila abitanti sono uno dei nove paesi più popolosi tra quelli che hanno votato contro la risoluzione nella riunione dell’Assemblea generale del 21 dicembre.

    Gli Stati federati della Micronesia sono indipendenti dal 1986, quando firmarono un “accordo di libera associazione” con Washington che permette ai cittadini delle piccole isole dell’Oceania di viaggiare, vivere e prestare servizio militare negli Stati Uniti senza aver bisogno di visto.

    Le Isole Marshall, uno stato insulare dell’oceano Pacifico passato sotto il controllo statunitense al termine della Seconda guerra mondiale, hanno una popolazione di soli 53mila abitanti.

    Come si legge nel manuale Corso di diritto internazionale di Sergio Marchisio, la minuscola repubblica presidenziale è indipendente dal 1986 ma, come gli Stati federati della Micronesia e la Repubblica di Palau, ha concluso “accordi di libera associazione con gli Stati Uniti che pongono queste tre entità in una situazione analoga al protettorato, con ingerenza assoluta in materia di difesa e sicurezza e autorizzazione preventiva statunitense per i rapporti internazionali”.

    Negli anni immediatamente successivi alla fine del conflitto mondiale, tra il 1946 e il 1958, gli Usa eseguirono una serie di test nucleari su alcuni atolli dell’arcipelago.

    Particolarmente noto è quello del 1° marzo 1954 nell’atollo di Bikini, passato alla storia con il nome in codice Castle Bravo: il più grande test nucleare mai condotto dagli Stati Uniti, con una potenza di circa mille volte superiore ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki nell’agosto 1945.

    Tra i quattro stati insulari del Pacifico che hanno promosso la linea di Trump sulla questione israelo-palestinese, Nauru è l’unico a non avere una storia come colonia Usa.

    Tuttavia, il suo peso a livello internazionale è assai ridotto: con poco più di 10mila abitanti su un territorio di 21 chilometri quadrati, Nauru è la più piccola repubblica indipendente del mondo, l’unica a non avere una città capitale.

    Honduras e Guatemala, i due paesi dell’America centrale che hanno votato contro la risoluzione Onu su Gerusalemme capitale, hanno una storia lunga decenni di stretti legami diplomatici e militari con gli Stati Uniti.

    Tutti e due paesi seguono da sempre le indicazioni di Washington per quanto riguarda le decisioni adottate in sede internazionale.

    Durante gli anni Ottanta, l’Honduras sostenne gli Stati Uniti per quanto riguarda le attività di interferenza in Nicaragua, tra le quali il sospetto ricorso alla forza armata diretta con la disseminazione di mine nelle acque territoriali nicaraguensi, e l’opposizione alla guerra civile a El Salvador.

    Il Togo è l’unico paese africano ad aver votato contro la risoluzione Onu che ha bocciato la decisione di Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele.

    La scelta di Togo è l’unica ad aver davvero sorpreso gli esperti di politica internazionale, considerando anche la posizione chiara dell’Unione africana sull’argomento.

    Una “decisione inutile alla causa palestinese che non porterà la pace nel territorio”, ha detto pochi giorni fa Salah Hammad, esperto per i diritti umani del Dipartimento per gli affari politici dell’Ua.

    Dietro il voto di Togo, più dell’influenza di Washington, ci sono i rapporti particolarmente positivi con Israele.

    Il presidente Faure Gnassingbé ha infatti ospitato il vertice Africa-Israele a Lomé ed è stato in visita da Netanyahu nello stato ebraico. I buoni rapporti tra i due paesi sono stati dunque determinanti nel voto all’ONU del Togo.

    Tra le 35 astensioni ci sono quelle di alcuni alleati chiave degli Stati Uniti, tra i quali i vicini Messico e Canada.

    L’ambasciatore canadese alle Nazioni Unite Marc-Andre Blanchard ha criticato la risoluzione, tacciata di offrire un punto di vista troppo ristretto su una questione assai più complessa.

    Tuttavia, Blanchard ha confermato la volontà del Canada di “mantenere lo status quo esistente nei luoghi sacri di Gerusalemme”.

    Un’astensione che sa di bocciatura, quindi. Come Canada e Messico hanno votato anche altri paesi americani come Argentina, Colombia, Repubblica Dominicana, Panama e Paraguay.

    Gli stati europei che si sono astenuti sono Bosnia Erzegovina, Croazia, Repubblica Ceca, Lettonia, Ungheria e Polonia.

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