La loro campanella della ricreazione suona alle 11. Quella degli altri alle 11.30, per fare in modo che non si incontrino nel cortile di scuola.
A quasi vent’anni dalla fine della guerra civile nell’ex-Jugoslavia (1991-95), nel Cantone Centrale della Bosnia ed Erzegovina – una delle aree più colpite dal conflitto – i bambini croati studiano nello stesso edificio dei bambini bosniaci.
Ma a parte lo stesso tetto, nulla è in comune: diverso il cancello d’ingresso, diversi i libri e gli insegnanti, diversi i bagni e i bidelli. E diversi anche gli orari per utilizzare il cortile, unico spazio condiviso da entrambi i gruppi etnici.
Le cosiddette scuole divise, ufficialmente note come due scuole sotto un solo tetto, furono create nel 2003, in 54 comunità della Bosnia ed Erzegovina. Furono proposte come soluzione temporanea, con l’obiettivo di far avvicinare i bambini croati e bosniaci, che nel dopoguerra avevano iniziato a studiare in scuole separate.
Ma il risultato ottenuto è stato esattamente l’opposto: in molte aree del Paese le tensioni etniche si sono acuite e le due comunità si sono ulteriormente allontanate.
L’associazione no-profit The Genesis Project ha iniziato a lavorare in queste scuole dal 2009. La direttrice Dijana Pejić mi racconta come si sviluppò l’idea del progetto.
“Un giorno chiamai il preside di una scuola per proporre uno dei nostri spettacoli di burattini (uno show per sensibilizzare i bambini sui pericoli delle mine anti-uomo inesplose) e mi chiese se anche ‘gli altri’ dovessero essere presenti durante lo spettacolo”.
Il preside era disposto a far partecipare i bambini della scuola solo se fosse stato proposto uno spettacolo per i bosniaci e un altro per i croati, ma non per entrambi.
Fu in quel momento che Dijana e gli altri operatori di The Genesis Project decisero di intervenire nelle scuole divise e iniziarono a organizzare spettacoli teatrali e progetti educativi per un pubblico “misto”, dopo aver riscontrato il parere positivo delle famiglie e aver discusso a lungo con i presidi.
Fondato nel 1996 a Banja Luka – la seconda più grande città della Bosnia ed Erzegovina – The Genesis Project promuove programmi di sostegno e recupero per bambini e famiglie vittime del conflitto.
Oggi l’associazione lavora in 16 scuole divise nel Cantone Centrale della Federazione della Bosnia ed Erzegovina, dove questo tipo di istituzioni sono particolarmente diffuse. In quest’area le due etnie predominanti sono i bosniaci musulmani e i croati cattolici. Vi sono anche altri gruppi etnici, tra cui serbi ortodossi e rom, ma in una percentuale minore.
“Ci sono bambini che, pur vivendo a stretto contatto, non conoscono la cultura e le usanze religiose degli altri”, racconta Dijana. “In uno dei nostri workshop abbiamo portato un gruppo misto di bambini a visitare la cittadina di Fojnica, sede di uno dei più antichi monasteri cattolici. Si trova in un’area a maggioranza musulmana ed è il simbolo di secoli di convivenza pacifica tra le due religioni, ma i bambini bosniaci non la conoscevano”.
Da una ricerca condotta da The Genesis Project in collaborazione con l’Unicef, risulta che la maggior parte dei genitori è favorevole a superare il modello delle scuole divise.
“Prima della guerra c’era una scuola per tutti e i genitori ricordano con nostalgia quei tempi”, dice Dijana. “Per questo abbiamo sviluppato attività che coinvolgono anche i genitori stessi, perché è importante che il messaggio trasmesso ai bambini a scuola venga poi confermato anche a casa”.
Nonostante i progressi fatti, il lavoro da fare per superare le diffidenze reciproche è ancora tanto. “Un giorno una delle psicologhe di The Genesis Project entrò in una scuola e chiese dove fossero i bagni”, racconta Dijana. “E la donna delle pulizie le rispose: dipende, sta andando dai bambini croati o dai bosniaci?”.
Le tensioni sono tali che in alcune scuole i presidi si rifiutano di far sedere nella stessa stanza alunni di diversa provenienza etnica. Il regime di segregazione è rafforzato anche dai testi scolastici.
Nonostante per legge solo il 20 per cento del programma possa essere differenziato, nella maggior parte delle scuole il programma cambia drasticamente a seconda del gruppo etnico di appartenenza, soprattutto per l’insegnamento di storia, geografia e letteratura.
“Viviamo nella Bosnia ed Erzegovina, non siamo né serbi né croati”, dice Dijana. “Dovremo smettere di propagandare messaggi nazionalisti. Adesso hanno iniziato a correggere alcuni libri di scuola, ma ci vorrà molto tempo”.
Nel 2013 il ministro dell’Educazione della Federazione della Bosnia ed Erzegovina disse che la presenza delle scuole divise era “imbarazzante”. Molti politici locali sostengono invece che questo sia l’unico modo per salvaguardare l’identità nazionale delle minoranze.
Nel 2007 Greta Kuna, ministro dell’Educazione per il Cantone Centrale, disse che le scuole divise non sarebbero state abolite perché “non si possono mischiare mele e pere. Le mele vanno con le mele, e le pere con le pere”.
Le “due scuole sotto un solo tetto” sono la prova che le ferite della guerra sono ancora aperte. Il conflitto in Bosnia scoppiò nel 1992, in seguito alla disgregazione dell’ex-Jugoslavia e alla spinta dei movimenti nazionalisti croati, bosniaci e serbi.
La guerra si concluse nel 1995 con gli accordi di Dayton, che resero la Bosnia ed Erzegovina indipendente dalla Serbia e la divisero in due entità: la Republika Srpska e la Federazione di Bosnia ed Erzegovina.
Il patto doveva ‘normalizzare’ il Paese, ma ha fossilizzato le fratture etniche. A seconda di chi vinse sul campo di battaglia, in alcune città si insediò una maggioranza croata, in altre bosniaca e in altre ancora serba.
Dal 1992 al 1995 morirono circa 140mila persone, 50mila donne subirono violenza sessuale e oltre due milioni di persone furono costrette a lasciare le proprie case per fuggire.
Ancora oggi si continuano a trovare fosse comuni, zeppe di scheletri ormai impossibili da identificare. Le scuole divise sono eredi del processo di pace del 1995: furono una soluzione d’emergenza, per dare al Paese il tempo di dimenticare il trauma della guerra.
Ma è proprio dalle scuole che si dovrebbe ripartire per superare le logiche del dopoguerra e riaprire un dialogo con quelli che, a distanza di vent’anni, vengono ancora chiamati gli altri.
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