Lo Scottish National Party (SNP), relativamente parlando, è uno dei grandi sconfitti della tornata elettorale britannica dell’8 giugno. L’avverbio “relativamente” è dovuto al fatto che, nelle elezioni l’SNP è sempre il partito di maggioranza nel suo feudo naturale, con 35 seggi sui 59 disponibili. La notizia è che il partito è ben lontano dai 56 seggi che ottenne nel 2015, registrando un calo di 21 parlamentari.
A cosa è dovuto questo passo indietro? Il partito ha perso terreno in gran parte a favore del partito conservatore scozzese, con la giovane leader Ruth Davidson, leader dei Tories di Scozia, che ha letteralmente spazzato via il consenso quasi plebliscitario di cui godevano i nazionalisti scozzesi.
Fra le vittime illustri che hanno perso il loro seggio al parlamento di Westminster due su tutti: il primo è Alex Salmond, leader dello Scottish National Party prima dell’attuale Nicola Sturgeon, dimessosi dopo la sconfitta nel referendum sull’indipendenza scozzese.
L’altro illustre “caduto” è Angus Robertson, figura di spicco del partito che ha perso il seggio a Westminter in qualità di leader dell’SNP a Londra.
La vera sorpresa di queste elezioni nelle circoscrizioni scozzesi è quindi Ruth Davidson, con i 13 seggi guadagnati a favore dei Tories scozzesi, che segnano il migliore risultato dal 1983.
In questa situazione la figura forte di Nicola Sturgeon ne esce, seppur vincente, molto ridimensionata. Ciò significa non che gli scozzesi abbiano voltato le spalle all’ideale dell’indipendenza, ma che in questo momento ci si vuole focalizzare di più su altre priorità interne – come la sanità e l’istruzione – e meno sul distacco da Londra.
Fondamentale è stata poi la vicenda Brexit, motivo fondamentale per cui si è andati alle elezioni anticipate. La popolazione scozzese sembra più propensa a mettere temporaneamente da parte l’indipendenza e pensare prima a vigilare su un buon divorzio da Bruxelles e poi, in futuro (come vera mission del partito) su quello da Londra. Anche i divorzi hanno delle priorità.
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