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Da Gaza al presunto “genocidio dei bianchi”, Trump e Musk hanno un nuovo nemico: ecco cosa sta succedendo tra gli Usa e il Sudafrica

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Credit: ZUMAPRESS.com / AGF

Il segretario di Stato Marco Rubio ha espulso l'ambasciatore Ebrahim Rasool, accusandolo di "istigazione al razzismo", e di "odiare l'America e il presidente". Ma lo scontro tra Washington e Pretoria arriva fino in Medio Oriente e in Africa. Ecco cosa c'è dietro la disputa con il Paese d'origine dell'uomo più ricco del mondo

Di Andrea Lanzetta
Pubblicato il 17 Mar. 2025 alle 13:50 Aggiornato il 17 Mar. 2025 alle 15:30

Donald Trump ha un nuovo nemico di cui non parla nessuno: il Sudafrica. Da quando è tornato alla Casa bianca, il presidente ha rivoluzionato la politica estera degli Stati Uniti, riavvicinando Washington alla Russia a spese del sostegno all’Ucraina; scatenando una guerra commerciale contro i vicini Canada e Messico e contro la Cina; e minacciando di imporre dazi contro l’Europa e il Regno Unito; di attuare ritorsioni contro gli alleati della Nato che non contribuiscono abbastanza alle spese dell’Alleanza atlantica; di riconquistare il canale di Panama; di acquisire “in un modo o nell’altro” la Groenlandia; e di ottenere il controllo della Striscia di Gaza, espellendo la popolazione palestinese. Ma la querelle con il governo di Pretoria è tutta un’altra storia.

Il caso Rasool
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l’espulsione dell’ambasciatore del Sudafrica negli Stati Uniti, Ebrahim Rasool, con un tweet pubblicato venerdì 14 marzo dal segretario di Stato, Marco Rubio. “L’ambasciatore del Sudafrica negli Stati Uniti non è più il benvenuto nel nostro grande Paese”, aveva scritto la massima autorità diplomatica statunitense. “Ebrahim Rasool è un politico che istiga al razzismo, odia l’America e il presidente degli Stati Uniti (Donald Trump, ndr)”, aveva aggiunto. “Non abbiamo nulla di cui discutere con lui e quindi è considerato PERSONA NON GRATA”, aveva poi concluso Rubio senza fornire ulteriori spiegazioni, allegando però il link a un articolo del portale di estrema destra Breitbart che attribuiva al diplomatico sudafricano l’accusa rivolta a Trump di “guidare il movimento suprematista bianco a livello globale”.

Le dichiarazioni di Rasool erano state estrapolate da un intervento tenuto proprio venerdì scorso dall’ambasciatore sudafricano in videocollegamento con il Mapungubwe Institute for Strategic Reflection (MISTRA) di Johannesburg. Allora il diplomatico aveva affrontato, nel corso di una discussione dai toni accademici, il tema delle misure repressive adottate dall’amministrazione Trump contro l’immigrazione negli Usa e le politiche volute dal suo predecessore Joe Biden
a tutela della diversità,
dell’equità e dell’inclusione. “L’assalto suprematista al potere lo vediamo nella politica interna degli Stati Uniti, nel movimento MAGA, il movimento Make America Great Again, non come una semplice risposta a un istinto suprematista ma a dati molto chiari che mostrano grandi cambiamenti demografici negli Stati Uniti, in cui si prevede che l’elettorato votante statunitense diventerà bianco al 48 per cento”, aveva affermato Rasool, già ambasciatore negli Usa dal 2010 al 2015 ai tempi di Barack Obama, ex attivista anti-apartheid, arrestato per la sua appartenenza all’African National Congress di Nelson Mandela.

Nel suo discorso il diplomatico aveva sottolineato l’impegno del principale alleato del presidente statunitense, l’imprenditore di origini sudafricane Elon Musk, nei confronti dei movimenti di estrema destra in Europa, definendolo un “segnale di avvertimento” per un movimento globale che cerca di riunire chi si considera parte di una “comunità bianca in difficoltà”. Il Sudafrica, aveva spiegato, non è “l’unico” Paese a essere stato preso di mira da un’amministrazione che scatena guerre commerciali persino contro gli alleati. “Ma”, aveva aggiunto, “ci adattiamo perché siamo l’antidoto storico al suprematismo”. Rasool però non aveva mai attaccato direttamente Trump, anzi. “Questo non è il momento di inimicarsi gli Stati Uniti”, aveva sottolineato durante il suo intervento. “Evitiamo cose che offendono gli Stati Uniti”, aveva concluso. Dichiarazioni però che non sono bastate per salvargli il posto. Il problema però va evidentemente ben oltre la singola persona, visto che l’espulsione di un ambasciatore è considerata una misura estrema, adottata raramente nella storia degli Stati Uniti.

Sulla questione è intervenuto, il giorno seguente, anche il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa, che ha definito l’accaduto “deplorevole” e sollecitato i suoi funzionari a “mantenere il decoro diplomatico”. “Il Sudafrica resta impegnato a costruire una relazione reciprocamente vantaggiosa con gli Stati Uniti d’America”, si legge in una nota diramata sabato dall’ufficio della presidenza del Sudafrica. “Abbiamo preso atto del disappunto degli Usa in merito alle osservazioni fatte dall’ambasciatore Rasool. Sono in corso contatti con il governo degli Stati Uniti”, ha aggiunto oggi Ramaphosa. “Il Sudafrica è un attore importante per gli Stati Uniti, così come gli Stati Uniti lo sono per il Sudafrica”. La questione riguarda infatti i rapporti bilaterali e le opposte visioni politiche dei rispettivi governi.

D’altronde dal suo ritorno all’ambasciata sudafricana a Washington, dove aveva ripreso servizio a gennaio, Rasool non sembra aver concluso molto con la nuova amministrazione statunitense. Secondo fonti citate dal portale Semafor, nelle settimane in cui è rimasto in carica Rasool “non è riuscito a garantirsi incontri formali con funzionari del dipartimento di Stato e figure chiave del partito repubblicano dopo il ritorno in carica di Trump a gennaio”. Un diplomatico sudafricano ha detto al sito di notizie che le carte erano truccate contro l’ambasciatore: “È improbabile che un uomo di nome Ebrahim, musulmano, con una storia politica pro-Palestina, faccia bene quel lavoro in questo momento”, aveva spiegato al portale un diplomatico sudafricano.

Da Gaza al presunto “genocidio dei bianchi”
Il primo punto di disaccordo tra Usa e Sudafrica riguarda infatti la questione palestinese. A dicembre 2023 il governo sudafricano ha accusato Israele di violare la Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio, un’accusa fermamente respinta da Tel Aviv ma che ha portato comunque lo Stato ebraico alla sbarra davanti alla Corte Internazionale di Giustizia de L’Aja, un procedimento che non era piaciuto nemmeno all’amministrazione precedente di Joe Biden, contraria anche ai crescenti contatti diplomatici e commerciali tra Sudafrica e Iran. Ma la cacciata dell’ambasciatore Rasool da Washington segue un altro e ben più recente motivo di tensione tra i governi di Washington e Pretoria.

Il 7 febbraio scorso il presidente degli Stati Uniti aveva firmato un ordine esecutivo che tagliava gli aiuti e l’assistenza al governo sudafricano, una mossa giustificata sia dalle presunte “posizioni aggressive” assunte da Pretoria “nei confronti degli Stati Uniti e dei suoi alleati”, come “l’accusa di genocidio rivolta a Israele invece che a Hamas davanti alla Corte Internazionale di Giustizia” e il “rilancio delle sue relazioni con l’Iran”, sia da una nuova legge approvata dal Parlamento di Città del Capo, che minaccia “di sequestrare, senza indennizzo, le proprietà agricole della minoranza etnica afrikaner (i discendenti dei coloni olandesi, tedeschi e ugonotti del XVII e XVIII secolo, ndr)”. Accuse respinte al mittente dal Sudafrica, che aveva negato ogni intento razzista, bollando come “disinformate” e “distorte” le affermazioni contenute nell’ordine esecutivo firmato da Trump, secondo cui la norma mirava alla confisca dei terreni di proprietà dei contadini bianchi.

La legge, promulgata a gennaio, mira invece proprio ad affrontare le disuguaglianze mai sanate risalenti ai tempi dell’apartheid, quando lo Stato poteva confiscare terre e proprietà su base razziale, visto che a oltre trent’anni dallo smantellamento del sistema razzista la maggior parte dei terreni privati in Sudafrica è ancora di proprietà della minoranza bianca, che costituisce circa il 7 per cento degli oltre 63 milioni di cittadini. Secondo il governo di Pretoria, ai sensi della nuova legge, non ci sono stati espropri, men che meno su base razziale: la norma infatti consente semplicemente alle autorità di confiscare terreni in casi specifici, come il mancato utilizzo, e solo se ritenuto nell’interesse pubblico, al fine di redistribuirli. Rassicurazioni però che non hanno fermato il presidente Usa, che ha anche annunciato un piano per offrire agli afrikaner lo status di rifugiati negli Stati Uniti.

Alle origini della “Paypal Mafia”
Uno scontro che non ha visto protagonista soltanto Trump ma anche il suo principale alleato, di origini sudafricane, Elon Musk, posto dal presidente a capo del nuovo dipartimento Usa per l’Efficienza Governativa (Doge), che risponde soltanto alla Casa bianca, secondo cui la nuova legge sudafricana minaccia la minoranza bianca. Il patron di X, nato nel 1971 a Pretoria, è cresciuto proprio nel Sudafrica dell’apartheid prima di trasferirsi nel 1988 (due anni prima della liberazione di Nelson Mandela) in Canada. Il 7 marzo scorso, su X, aveva accusato: “Starlink non è autorizzata a operare in Sudafrica, perché non sono nero”. Nipote per parte di madre di un nonno, Joshua Haldeman, trasferitosi dal Canada al Sudafrica nel 1950 perché apprezzava il governo dell’apartheid dopo aver manifestato simpatia per il nazismo, da anni Musk è impegnato a denunciare il presunto “genocidio bianco” in corso in Sudafrica, rilanciando la teoria cospirazionista della “grande sostituzione” etnica. “Stanno apertamente spingendo per il genocidio della popolazione bianca in Sudafrica”, scrisse il 31 luglio 2023 su X rispondendo a un video dello YouTuber di estrema destra Benny Johnson, che accusava il movimento politico Economic Freedom Fighters di promuovere l’omicidio “dei Boeri (gli afrikaner, ndr) e dei contadini”. “Cyril Ramaphosa, perché non dici niente?”, concluse Musk.

L’uomo più ricco del mondo però è solo uno dei tanti miliardari di Big Tech attivi nella cerchia ristretta di Trump con legami con il Sudafrica. Soprannominati la “PayPal Mafia”, in prima fila figura il co-fondatore del noto servizio di pagamento, Peter Thiel, nato nel 1967 a Francoforte sul Meno, in Germania, e trasferitosi con la famiglia per un breve periodo nel 1977 prima in Sudafrica e poi nell’Africa del Sud-Ovest, l’attuale Namibia, allora colonia sudafricana, dove vigeva ovviamente l’apartheid. A loro si aggiungono anche l’ex direttore operativo di PayPal e attuale consigliere della Casa bianca per le criptovalute, David Sacks, nato nel 1972 a Città del Capo da una famiglia ebrea trasferitasi cinque anni dopo in Tennessee, e l’ex direttore finanziario del servizio di pagamento, Roelof Botha, nipote dell’ultimo ministro degli Esteri del regime dell’apartheid Pik Botha (che fu anche ministro dell’Energia nel primo governo Mandela), nato nel 1973 a Pretoria ed emigrato negli Usa soltanto nel 1998.

Un gruppo criticato sulle colonne del Corriere della Sera dallo stratega della vittoria di Trump nel 2016, Steve Bannon: “Peter Thiel, David Sacks, Elon Musk sono tutti sudafricani bianchi”, disse nella sua intervista concessa a gennaio al quotidiano di Via Solferino. “Dovrebbero tornarsene in Sudafrica. Perché abbiamo sudafricani bianchi, le persone più razziste del mondo, a commentare su tutto ciò che succede negli Stati Uniti?”. Evidentemente non si limitano a commentare.

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