Finita l’offensiva militare per liberare Sirte dall’occupazione dei miliziani dello Stato Islamico, è arrivato il tempo della conta dei danni, dei morti e dei feriti. Nelle fila dell’esercito libico le vittime sono state più di settecento, i feriti più di tremila, un prezzo altissimo per le milizie unite nell’operazione Bunyar al Mansous, la stragrande maggioranza di Misurata.
Più di duemila sarebbero invece i miliziani dell’Isis morti durante i sette mesi di guerra, secondo il portavoce dell’offensiva, il generale Mohammed al Ghasri. È sul numero delle vittime civili che invece sarà molto più complicato fare chiarezza: sotto le macerie di Sirte a oggi i cadaveri rinvenuti sono circa seicento.
Tra questi anche le famiglie dei miliziani, tenute ostaggio di una guerra combattuta casa per casa fino all’ultimo giorno. A sud di Misurata c’è il compound dell’aeronautica libica, sulla stessa strada a sinistra c’è l’ospedale costruito dagli italiani, come parte integrante dell’operazione Ippocrate, a destra una strada sterrata che porta ad una prigione.
È proprio il generale Al Ghasri a invitarci lì, perché – dice – “Le detenute sono dell’Isis”.
Invece quando il grande cancello del carcere si apre, tra un muro e un altro di filo spinato, di fronte ai nostri occhi ci sono decine di donne di varie nazionalità: sono eritree, etiopi, filippine, irachene, tunisine. Sono sedute su una grande panca nel cortile esterno, prendono la poca aria concessa loro nei lunghissimi giorni di detenzione.
Ed è nel cortile di quel carcere alla periferia di Misurata, che è più evidente quanto nella guerra a Sirte sia stato complesso distinguere tra civili e miliziani. Le operazioni militari nelle ultime settimane sono state lentissime, estenuanti. I soldati dicevano: la nostra priorità sono i civili.
Poi a voce bassa dicevano anche: non sappiamo più distinguere i civili dai miliziani. Questo dopo che una donna con un bambino in braccio, invece che farsi salvare dai soldati, ha lanciato il proprio bambino a uno di loro e si è fatta esplodere, uccidendo quattro soldati e i bambini e le donne che – insieme a lei – stavano uscendo dalle macerie.
Alcune delle donne che sono nel carcere di Misurata devono essere comprensibilmente interrogate dalle autorità libiche. Sono per lo più di nazionalità siriana, irachena, tunisina e libica e potrebbero avere informazioni utili per capire quanti fossero gli uomini dell’Isis a Sirte, come sono arrivati, chi li ha appoggiati e soprattutto dove e come intendano riorganizzarsi.
Decine di altre donne, eritree, condividono con loro un destino di detenzione, ma non erano mogli di miliziani, erano le loro schiave sessuali. Molte di loro, in fuga da dittatura e povertà, erano arrivate in Libia per tentare di pagare un trafficante e attraversare il Mediterraneo e sono state catturate e costrette a vivere chiuse a chiave in una stanza, trattate peggio di animali.
Tecle ha circa 30 anni, è seduta sul suo letto in una delle celle del primo piano della prigione. In ogni cella sei, otto letti, che le donne condividono con i propri figli. Tecle copre il suo volto con un velo scuro, lascia vedere solo i suoi occhi. Tristissimi. Smarriti.
“Sono cristiana – dice – e loro mi hanno costretta a convertirmi. Mi dicevano che i cristiani sono il male, che per noi non ci sarebbe mai stato il paradiso ma solo le fiamme dell’inferno, perché siamo infedeli. Mi hanno detto che se non mi fossi convertita mi avrebbero tagliato la testa con un pugnale”.
Piange Tecle, ripete continuamente che lei non ha fatto niente per meritare questo incubo. Ripete che lei voleva solo scappare dalla fame per poter mandare dei soldi alla sua famiglia, in Eritrea. Ripete solo: vi prego, fatemi uscire di qui.
“Ero terrorizzata dal viaggio sul gommone, avevo paura di morire annegata nel Mediterraneo, ma non avrei mai immaginato di finire in queste due prigioni: nelle mani dell’Isis e in questa cella libica”. Tecle come tutte le donne eritree in questo carcere è stata maltrattata e violentata da più di un uomo nel corso di mesi interminabili.
“Sono stata violentata da sei uomini diversi. Mi vendevano o mi regalavano quando non mi volevano più. La mia vita valeva meno di un mazzo di fiori. Meno di un oggetto. Passavo le notti a chiedermi: perché sono qui. E quando i soldati libici ci hanno preso, tirato fuori dalle macerie, io ho cominciato di nuovo a respirare. Ho sperato che l’incubo fosse finito. Invece sono di nuovo in un carcere e non ho fatto niente per meritare questo”.
Tecle piange. Non ha un telefono, e come tutte le altre non può avvertire la sua famiglia, non può comunicare loro che sta bene, che è viva, che è riuscita a salvarsi dall’Isis.
Uno dei soldati libici ci mostra l’infermeria. Non ci sono medicine, non c’è abbastanza cibo, né per le donne, né – soprattutto – per i bambini, spesso neonati. I figli dell’Isis.
Mesmer ha venticinque anni. Anche lei è eritrea, è stata prelevata da un gruppo di uomini al checkpoint di Ashdabja. Aveva attraversato il Sudan e tutta la Libia per arrivare sulla costa. Solo una volta a Sirte ha capito chi fossero quegli uomini.
Dopo qualche settimana ha provato a scappare, rompendo una finestra. Si è rotta una gamba, il suo ‘padrone’ l’ha trovata, punita e tenuta chiusa in una stanza per mesi. Abusando di lei.
“Non mi parlava mai di quello che avveniva fuori da quella casa. Mi diceva solo che la mia vita non valeva niente. Mi picchiava, mi diceva di stare zitta. Mi ripeteva che la mia vita dipendeva dalla sua. Se lui viveva io vivevo, se lui fosse morto, io sarei morta con lui. Quando mesi fa abbiamo cominciato a sentire le bombe, capivamo a stento cosa stesse accadendo”.
“Poi li abbiamo visti combattere e abbiamo capito. Ci cadevano le bombe a dieci metri. Io non ho fatto altro che pregare, pregavo ogni giorno, dalla mattina alla sera, pregavo di uscire viva da quell’inferno. Loro ci ripetevano: morirete con noi. E voi andrete all’inferno, cristiane infedeli”.
Quando sono riuscite a scappare, Mesmer racconta di aver preso un panno bianco da mostrare ai soldati “volevo che fossero certi che eravamo civili, dovevano capire che eravamo vittime. Camminavo a malapena, quando mi hanno salvata erano settimane che non mangiavo altro che acqua e poco pane. Ma mi sembrava un sollievo essere libera. Mai, mai avrei immaginato di essere arrestata”.
Mesmer, Tecla, decine di altre donne come loro, scappate dalla fame, rapite dall’Isis, vendute e violentate per mesi, oggi vivono nel limbo del caos libico, costrette a una detenzione immotivata senza sapere se e quando potranno uscire dal carcere.
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