“Ai miei fratelli e sorelle, ho provato a sopravvivere e ho fallito, perdonatemi. Ai miei amici, l’esperienza è dura e sono troppo debole per resistere, perdonatemi. Al mondo, sei stato davvero crudele! Ma io perdono”.
Queste sono le ultime parole di Sarah Hijazi, morta suicida ieri, domenica 14 giugno, all’età di 30 anni. Sarah era un’attivista egiziana Lgbti. Nel 2017 era stata arrestata per aver sventolato una bandiera arcobaleno durante un concerto dei Machrou Laila (un gruppo libanese) al Cairo. Torturata e violentata in carcere, era stata rilasciata su cauzione, ma venne in seguito accusata e ripudiata dalla società per il suo gesto e per il suo orientamento sessuale. Sarah aveva trovato asilo in Canada. Come Patrick Zaky – tuttora incarcerato al Cairo – Sarah aveva combattuto la disuguaglianza di classe e di genere nel suo paese, e per questo era stata punita, accusata di promuovere “l’omosessualità e la deviazione sessuale”.
La storia
Il 22 settembre 2017, durante il concerto dei Machrou Laila, Sarah e un suo amico, Ahmed Alaa, sventolano la bandiera arcobaleno, un atto innocuo in molti paesi, ma non per l’Egitto, dove il gesto viene pesantemente condannato. L’immagine finisce sui media nazionali e in breve tempo i leader religiosi chiedono punizioni severe per i due attivisti.
Anche la popolazione egiziana li osteggia perché colpevoli di aver compiuto un “atto immorale” e aver contribuito alla diffusione di sodomia e valori non islamici. Sarah e Ahmed finiscono in prigione, in due celle isolate. Secondo fonti locali, entrambi subiscono torture e maltrattamenti, cicatrici che sarà impossibile cancellare dal corpo e dalla mente.
Dopo le pressioni internazionali, i due vengono rilasciati su cauzione e possono chiedere asilo in Canada. Entrambi sono ancora scioccati da quello che hanno vissuto. Il 14 giugno Sarah Hijazi scrive una lettera d’addio e si suicida. Sarah ha lottato per una vita migliore, non solo per lei ma per tutta la sua comunità, per le persone che affrontano l’odio, per le vittime dell’omofobia, degli abusi, dell’ingiustizia, per i bambini e i ragazzi Lgbti in Egitto che vivono nella paura. In Canada aveva trovato accoglienza, era il luogo dove aveva provato a ricominciare, a fare attivismo e a chiedere la liberazione degli altri attivisti nelle carceri egiziane. Ma i mostri del passato, l’omofobia e gli orrori subiti le erano rimasti dentro.
Sarah se ne va, lasciando anche un ultimo messaggio nella sua foto pubblicata sui social, distesa su un prato in una giornata di sole: “Il cielo è più bello della terra! E io voglio il cielo e non la terra”.
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