Si prosternano al suolo dopo aver recitato parti del libro Sacro. Le voci dei fedeli fanno eco e si confondono con quella della guida spirituale che dirige la preghiera comunitaria. Le tuniche bianche e i cappelli rossi simboleggiano il giorno di festa e preghiera. Siamo a Nablus, in Cisgiordania, nei territori palestinesi ai piedi del monte Garizim, dove sorge Kiryat Luza, un piccolo villaggio abitato da poche centinaia di persone, tutti Samiriun, una delle più piccole sette religiose al mondo, 850 fedeli in tutto divisi tra Nablus e Holon, in Israele. Sarebbero i Samaritani citati nella Bibbia. E si definiscono «i veri discendenti di Mosè, a differenza degli ebrei israeliani che hanno modificato la Torah, sviando dalla retta via».
Origini e destino
Le prime tracce dei Samiriun risalgono al XII secolo a.C. Sarebbero loro il popolo di Israele citato nella Bibbia, che Mosè condusse in Terra Santa dopo la fuga dal Faraone. Si considerano “Shamiri”, cioè i veri conservatori della tradizione ebraica, e i possessori dell’unica copia originale della Torah. Dopo aver raggiunto, la Palestina si stanziarono a Nablus e vissero in pace sotto gli imperi che si susseguirono, da quello romano a quello ottomano, vivendo di preghiera e commerci pacifici con i vicini, fino alla nascita dello Stato di Israele, che segnò l’inizio dello scontro con i “nuovi arrivati” dall’Europa, da loro considerati estranei.
I Samiri seguono i dieci comandamenti e hanno riti specifici per il pellegrinaggio sul monte Garizim, che si svolge ogni anno. Pregano ogni giorno e digiunano una volta all’anno come forma di espiazione dei peccati. Il loro numero è passato da diverse migliaia sotto l’impero romano alle poche centinaia di oggi e si teme possano estinguersi. Non è concesso infatti sposarsi al di fuori della setta Samiri ed essendo poco numerosi, i giovani spesso sono costretti a lasciare il gruppo per sposarsi liberamente con persone di altre fedi.
Attualmente i Samiri sono poco più di 850. Alcuni hanno cittadinanza giordana, altri palestinese, altri ancora israeliana. Parlano arabo ed ebraico e sono tutti sono accomunati da un legame forte con la Palestina, in particolare con Nablus dove la maggior parte dei Samiri è nata e cresciuta accanto ai fedeli musulmani e cristiani. E tutti considerano Israele come un progetto politico di occupazione dei Territori palestinesi. Il sacerdote Samiri Hosni che dirige la confraternita del Monte Garizim denuncia da anni le mire di Tel Aviv su questo luogo unico e storico. Hosni punta il dito contro gli scavi e le trivellazioni portate avanti dall’amministrazione israeliana per creare nuovi progetti edili e attrazioni turistiche con l’obiettivo di aumentare il numero di visitatori nell’area ma secondo il sacerdote sarebbe solo un pretesto per «rubare il nostro patrimonio culturale e religioso e per cancellare la nostra presenza secolare».
Gli scavi di Gezim sono solo una delle lunghe restrizioni che i Samiri vivono sulla loro pelle a fianco dei palestinesi. Dopo la guerra del 1967 con l’occupazione israeliana della Cisgiordania, i Samiri sono stati costretti a fuggire, deportati da Nablus a Holon, in Israele, con la promessa della cittadinanza israeliana. Alcuni sono partiti, altri si sono rifiutati di lasciare le loro terre. Come il padre di Hosni, anche lui una figura di riferimento della setta di Nablus, in costante contatto con i partiti politici palestinesi con i quali ha intessuto rapporti e collaborazioni contro l’occupante fin dai tempi della guerra dei Sei Giorni.
Lotta armata e politica
Ma mentre gli anziani della setta erano più inclini alla diplomazia, i giovani Samiri decidono di imbracciare le armi. Nader Mamdoh Saleh Sadaqa, nel 2000, a soli 21 anni si unisce, con altri giovani della setta, ai gruppi armati palestinesi attivi in Cisgiordania. Sono anni caldi quelli tra il 2000 e il 2005 con lo scoppio della seconda Intifada e gli scontri armati quotidiani contro l’esercito israeliano ai quali Nader partecipa attivamente, prima come “membro semplice” e poi come responsabile delle azioni militari a Nablus. A 25 anni è il capo politico e militare del battaglione “Martire Abu Mustafa”, braccio armato del Movimento popolare di liberazione della Palestina.
Nel 2004, dopo anni di ricerche, le forze di sicurezza israeliane lo scovano in una abitazione a Nablus, e dopo ore di scontri a fuoco, viene arrestato e condannato a sei ergastoli per una serie di operazioni militari che ha organizzato e condotto contro l’esercito israeliano, in collaborazione con le brigate al-Qassam, il braccio armato di Hamas, che hanno causato la morte di decine di soldati di Tel Aviv in Cisgiordania. Secondo le ong locali, è da anni sottoposto a torture e violenze fisiche all’interno del sistema carcerario israeliano con continui trasferimenti e isolamenti forzati.
La setta Samiri però non è impegnata solo sul fronte armato, ma anche su quello della rappresentanza politica all’interno della Cisgiordania. I rapporti storici tra i Samiri e Arafat, che dirigeva l’Autorità nazionale palestinese (Anp), hanno portato alla concessione di un seggio riservato ai Samiriun all’interno del Parlamento palestinese. «Arafat era un grande politico e una persona illuminata, premurosa, che ha sempre dato importanza e valore alla nostra presenza nella politica e società palestinese», afferma il sacerdote Samiri Hosni.
I Samiri sono presenti anche nei Consigli comunali della Cisgiordania, come a Nablus, dove partecipano attivamente alla vita politica: i loro rappresentano hanno la delega alla gestione del patrimonio turistico locale e al dialogo interreligioso. «Noi vogliamo vivere in pace. Da secoli siamo qui a Nablus accanto al monte Sacro Garizim, il vero luogo di culto ebraico. Gerusalemme non è mai stato un luogo sacro per noi, non è citato nemmeno nella Torah”, afferma il sacerdote Samiri Hosni. «Lo scontro tra noi palestinesi e gli ebrei israeliani è tutto politico. E non vivremo in pace fino a che non nascerà uno Stato Palestinese autonomo. Noi a Nablus siamo la testimonianza vivente che si può fare: che si può vivere tutti insieme, in pace, partecipando al bene della collettività».
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