In Africa occidentale si combatte da anni un conflitto poco seguito dai media occidentali, ma che rappresenta oggi uno dei maggiori teatri della guerra al terrorismo in tutto il mondo: la lotta ai movimenti jihadisti attivi nel Sahel, le cui complicità con altri gruppi armati della regione influenzano anche la tratta di esseri umani e i flussi migratori verso l’Italia e l’Europa. Se quest’ultima sta aumentando il proprio contributo in termini militari, gli Stati Uniti hanno annunciato un parziale ritiro dalla regione, che nei prossimi mesi potrebbe aumentare il rischio di nuovi attentati, mentre al-Qaeda soffia sul fuoco delle tensioni etniche e la popolazione locale vive una drammatica crisi alimentare.
Secondo uno studio pubblicato quest’anno dalla società di consulenza IHS Markit, negli ultimi tre anni è stato registrato un forte aumento del terrorismo jihadista nei sei paesi della regione: Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania, Niger e Nigeria. Tra il 2015 e il 2018, il numero complessivo di attentati è cresciuto in quest’area del 80,2%, mentre le vittime sono aumentate del 62,5%.
Il giornalista nigeriano esperto di terrorismo, Ahmad Salkida, ha denunciato come la scorsa settimana, tra il 15 e il 21 novembre, il gruppo locale affiliato al sedicente Stato Islamico abbia compiuto più attentati in Nigeria che in tutto il resto del mondo, superando persino teatri come Iraq, Siria, Afghanistan, Pakistan ed Egitto.
Soltanto lo scorso anno sono stati segnalati in Africa almeno 343 attacchi terroristici, in cui sono state uccise oltre 2.600 persone. La maggior parte di questi attentati è stata compiuta nel Sahel e nel Corno d’Africa. Per contrastare questo fenomeno, all’inizio del 2017 il G-5 du Sahel, composto da Burkina Faso, Mali, Mauritania, Niger e Ciad, ha istituito una forza congiunta anti-terrorismo, che dovrebbe raggiungere i 5.000 effettivi e che ha ricevuto a febbraio un finanziamento di oltre 509 milioni di dollari da una conferenza di più di 50 paesi donatori.
Tuttavia, il fenomeno terroristico che subisce l’Africa occidentale si inserisce nel quadro più ampio di paesi in cui la povertà significa spesso impossibilità a procurarsi il cibo necessario per sopravvivere, dove le rivalità etniche, sociali, tribali e religiose superano i confini e provocano esplosioni di violenza incontrollata e in cui le complicità tra gruppi armati e organizzazioni criminali allo scopo di finanziare le proprie attività impedisce a volte di distinguere i jihadisti dai ribelli e le rotte del terrorismo da quelle del traffico di esseri umani.
La scorsa settimana, il Fondo per l’Infanzia delle Nazioni Unite (Unicef) ha denunciato la grave malnutrizione in cui vivono nel Sahel oltre un milione e 300 mila bambini al di sotto dei cinque anni di età. Si tratta del numero più alto mai registrato negli ultimi dieci anni in Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania, Niger e Senegal, mentre queste cifre rappresentano un aumento del 50% rispetto al 2017. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), oltre sei milioni di persone hanno sofferto la fame in quest’area nel 2018.
Il direttore regionale del World Food Programme (WFP) per l’Africa occidentale e centrale, Abdou Dieng, ha denunciato la grave malnutrizione di 1,6 milioni di minori e di 2,5 milioni di pastori dell’area. Le zone dedicate all’allevamento nella Mauritania meridionale, nel nord del Senegal e in diverse aree del Burkina Faso, del Mali, del Niger e del Ciad hanno registrato precipitazioni minime nel 2017, che hanno colpito gli allevamenti di bestiame e le colture locali. Secondo il WFP, la siccità, l’aumento vertiginoso dei prezzi dei prodotti alimentari e il rischio di conflitti hanno fatto precipitare milioni di persone nella fame e nella malnutrizione in diverse parti del Sahel. La situazione appare molto più grave considerando che, secondo le stime del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (UNFPA), gli abitanti dell’area sono destinati a raddoppiare entro il 2050.
L’organizzazione International Alert, che si occupa di prevenzione e risoluzione di guerre e lotta al terrorismo, ha rilevato come l’origine dei conflitti in corso nel Sahel trovi alcune delle proprie cause proprio nella violenza tra comunità di contadini e pastori, diffusasi negli ultimi anni in tutta la fascia che lega il deserto del Sahara alle pianure meridionali, dal Sudan a est alla Mauritania a ovest. Diverse aree di questa regione sono storicamente dedicate alla pastorizia, ma l’erosione e l’avanzamento del deserto e il prosciugamento progressivo di fonti d’acqua e di reddito come il lago Ciad, hanno diminuito la disponibilità di pascoli, obbligando i pastori a migrare a sud, provocando così dispute sulla terra con altre comunità composte prevalentemente da contadini. Una delle popolazioni più coinvolte è quella della comunità Fulani, conosciuta come “Peul” in Africa occidentale, composta in maggioranza da fedeli musulmani sunniti dediti alla pastorizia.
Negli ultimi 3 anni, dal giugno 2015, diversi gruppi di pastori armati hanno ucciso almeno 8.800 persone nella sola Nigeria. Nel primo semestre del 2018, gli scontri tra pastori e agricoltori avvenuti negli stati di Adamawa, Benue, Plateau, Taraba, Ondo, Jigawa e Kaduna hanno provocato oltre 1.000 morti. In Mali centrale invece, nelle regioni di Mopti e Segou, dove si verificano spesso scontri etnici, si sono contati più attacchi ai civili nell’ultimo anno rispetto alle cinque regioni settentrionali del paese africano messe insieme, dove la maggior parte delle violenze sono compiute dai gruppi jihadisti attivi nel Sahel. Negli scorsi mesi, in queste regioni sono nati due gruppi armati “di autodifesa”, il “Dana Amassagou”, composto da membri di etnia Dogon, e la “Alleanza per la salvezza del Sahel”, composta da combattenti Fulani, attiva anche oltre il confine con il Burkina Faso.
A fine agosto, i due gruppi avevano raggiunto un accordo nella zona di Koro, nella regione di Mopti, che aveva portato a una diminuzione degli scontri, che tuttavia sono ripresi nelle ultime settimane. La Federazione internazionale dei diritti umani (FIDH) e l’Associazione maliana dei diritti umani (AMDH) hanno denunciato in un rapporto congiunto come negli ultimi due anni, oltre 1.200 civili siano stati uccisi, circa 50 villaggi siano stati bruciati e più di 30mila persone siano state costrette a fuggire dalle violenze in corso nel centro del paese. Quasi il 77% di questi episodi violenti si è verificato nella sola regione di Mopti, teatro di scontri tra allevatori Fulani e contadini della comunità Dogon, che nell’ultima settimana hanno provocato la morte di almeno 12 civili nei pressi della sola città di Ouenkoro.
Secondo un rapporto pubblicato a giugno da International Alert, l’aumento dell’estremismo violento nel Sahel centrale è dovuto in primis all’incapacità degli stati della regione di garantire la sicurezza, risolvere le dispute sulla terra e fornire servizi pubblici di base alle popolazioni locali. La relazione sottolinea che le ideologie basate sulla fede religiosa non sono necessariamente la causa della radicalizzazione, legata invece in gran parte ad “abusi da parte dello stato e alla corruzione diffusa”, che appaiono infatti “come i principali fattori scatenanti per l’insurrezione dei gruppi armati composti da giovani Fulani”.
E’ proprio a questa comunità che a inizio novembre si sono rivolti tre dei maggiori comandanti di gruppi terroristici attivi nel Sahel in un filmato di propaganda pubblicato sui canali social frequentati dai jihadisti di tutta l’Africa occidentale. In questo video compaiono insieme il cittadino maliano di etnia touareg Iyad Ag Ghali, che guida il “Gruppo per l’affermazione dell’islam e dei musulmani” (GSIM), noto in arabo come Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslimin; il predicatore radicale Hamadoun Koufa, leader del katiba Macina, noto anche come Fronte di Liberazione del Macina (FLM), un gruppo armato salafita nato nel 2015 nella provincia centrale maliana di Segou e affiliato al gruppo terroristico Ansar ad-Dine e quindi allo stesso GSIM; e il cittadino algerino Djamel Okacha, i cui miliziani sono responsabili di diversi attentati condotti nel nord e nell’ovest del Mali.
Il filmato mostra Koufa, ucciso venerdì durante un’operazione militare congiunta tra Francia e Mali condotta nel centro del paese africano, mentre si rivolge in lingua Peul alla comunità Fulani residente nei paesi del Sahel e in Camerun. Il predicatore radicale ha invitato i Fulani a “unirsi alla jihad”, denunciando gli attacchi “ingiustificati” contro questa comunità e criticando l’intervento francese nel Sahel, dove Parigi schiera oltre 4.000 militari nell’ambito dell’operazione Barkhane, lanciata nel gennaio 2013 e tuttora in corso dopo che, tra marzo e aprile 2012, il Mali settentrionale era caduto nelle mani di alcuni gruppi jihadisti legati ad al-Qaeda.
Benché si tratti di un’opera di propaganda, il filmato ha certificato il riconoscimento di Iyad Ag Ghali e del GSIM come guida dei gruppi jihadisti attivi nel Sahel. Quest’organizzazione è considerata il ramo ufficiale di al-Qaeda in Mali ed è affiliata al network terroristico di al-Qaeda per il Maghreb Islamico (AQMI), che ha la sua base in Algeria. Secondo lo studio di IHS Markit, AQMI “ha ampliato con successo la sua presenza nella regione del Sahel” tra il 2015 e il 2018, “facilitato dalla fusione dei gruppi terroristici attivi” nell’area e “incoraggiato dalla scomparsa territoriale dello Stato islamico in Iraq e in Siria a metà 2017, che ha portato i miliziani a cercare nuove destinazioni dove trasferirsi”.
Secondo un comunicato pubblicato la scorsa settimana dal Comando delle forze armate nigeriane, il GSIM e attraverso questo, al-Qaeda per il Maghreb Islamico (AQMI), ha raggiunto un accordo con una nuova fazione del gruppo terroristico Boko Haram, attivo nel bacino del lago Ciad, dove dal 2009 ha provocato la morte di più di 27mila persone e almeno 1,83 milioni di sfollati solo in Nigeria. Nel 2016, il gruppo terroristico si era già diviso in due fazioni: una guidata dal leader storico Abubakar Shekau, denominata Jama’atu Ahlil Summah Lil Da’awatu Wal Jihad, e l’altra, conosciuta come Stato Islamico in Africa occidentale (ISWAP), da Abu Musab al-Barnawi, che ha giurato fedeltà all’Isis. La nuova fazione del gruppo identificata dai servizi nigeriani ha invece giurato fedeltà da Iyad Ag Ghali e al suo “Gruppo per l’affermazione dell’islam e dei musulmani” (GSIM). Questa scoperta ha confermato il potere di penetrazione di al-Qaeda dal Mediterraneo al Golfo di Guinea.
Il rapporto di IHS Markit rivela che “l’instabilità politica in Libia ha fornito le condizioni necessarie per il transito sia di jihadisti che di armi” dal Medio Oriente “nel Sahel, facilitato dal confine desertico scarsamente sorvegliato” dalle autorità di Tripoli, dove al-Qaeda “ha sfruttato le rotte esistenti nelle aree desertiche e forestali della regione”, da cui passa, in direzione opposta, anche il traffico di esseri umani.
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La relazione tra terrorismo, criminalità organizzata e gruppi armati locali è stata recentemente denunciata anche dalle Nazioni Unite. In un rapporto pubblicato ad agosto e presentato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, un gruppo di esperti indipendenti ha rivelato il coinvolgimento di alcuni gruppi armati che hanno firmato la pace con il governo del Mali negli attentati diretti contro le forze di sicurezza del paese e in attività legate alla criminalità organizzata, come il traffico di stupefacenti e quello di esseri umani. Questa relazione cita per esempio il caso di Salah Ag Ahmed, sindaco di Talataye, una località situata nella regione maliana di Gao. Quest’uomo è un membro influente dell’Alto Consiglio per l’unità dell’Azawad, un ex gruppo ribelle che ha firmato l’accordo di pace di Algeri nel 2015, ma anche “un ufficiale di collegamento con Ansar ad-Dine”, parte dell’organizzazione terroristica di Iyad Ag Ghali, “Gruppo per l’affermazione dell’islam e dei musulmani” (GSIM), “e con lo Stato Islamico nel Grande Sahara” (EIGS), che ha giurato fedeltà all’Isis e che è guidato da Abu Adnan Walid Sahraoui, un uomo originario del Sahara Occidentale, ma cresciuto in Algeria.
Alla fine dello scorso anno, il GSIM e l’EIGS hanno raggiunto un accordo che mira a contrastare l’azione delle truppe francesi presenti in Sahel, della forza anti-terrorismo del G-5 du Sahel e della missione MINUSMA schierata dalle Nazioni Unite in Mali. L’intesa prevede che i due gruppi conducano operazioni terroristiche congiunte, pur mantenendo ognuno la propria identità e struttura di comando. Secondo l’emittente Radio France Internationale, che per prima ha rivelato i dettagli dell’accordo, a queste due formazioni si starebbero unendo decine di combattenti provenienti da Libia e Siria, arrivati per unirsi ai ranghi dei jihadisti già operativi nel Sahel.
In un’intervista rilasciata a luglio al portale statunitense Voice of America, il ministro della Difesa del Niger, Kalla Mountari, aveva denunciato come diversi gruppi terroristici che operano lungo i confini del paese africano minaccino la sicurezza dello stato e dell’intera regione e potrebbero raggiungere l’Europa attraverso la Libia se questi riuscissero a stabilire rifugi sicuri in Niger, dato che il governo di Tripoli non attua politiche “efficaci” che impediscano ai jihadisti di attraversare il paese. Questa situazione è stata riconosciuta anche dagli Stati Uniti. “Il Niger si trova in una posizione strategica circondata su tre fronti da organizzazioni terroristiche con sede in Libia, Mali e Nigeria”, ha detto al VoA Samantha Reho, portavoce del Comando militare statunitense in Africa (AFRICOM). Il paese africano si trova infatti al centro di molte piste che attraversano il deserto del Sahara, sfruttate non solo dai terroristi, ma anche dai trafficanti di esseri umani. Il Niger è uno dei paesi prioritari individuati dal nuovo approccio alle migrazioni sviluppato dalla Commissione europea ed è il principale beneficiario dello EU Emergency For Africa Trust Fund, un fondo lanciato dopo il vertice de La Valletta del 2015, che finanzia progetti mirati a combattere le cause profonde delle migrazioni nei paesi africani.
Per questo, il paese vede la presenza sul proprio suolo di truppe francesi, statunitensi, britanniche e tedesche. Proprio Berlino ha inaugurato l’11 novembre una nuova base militare a Niamey, che ospiterà 40 soldati, mentre il 17 gennaio, il parlamento italiano ha approvato il dispiegamento della missione “di supporto nella Repubblica del Niger”, che è stata confermata a settembre dalla ministra della Difesa Elisabetta Trenta e vedrà l’impiego di un contingente iniziale di 120 truppe italiane per poi raggiungere il numero massimo di 470 militari, non impiegati però contemporaneamente ma a rotazione, con unità dispiegate anche nel porto di Cotonou, in Benin, e in Mauritania. La media annuale dovrebbe essere essere di 250 soldati, una parte dei quali dispiegata nel forte Madama, nel nord del paese africano, non lontano dal confine con la Libia, da dove passano migliaia di migranti diretti in Europa. Anche gli Stati Uniti stanno investendo diverse risorse in Niger. Il Pentagono ha recentemente annunciato l’intenzione di ridurre del 10% nei prossimi anni le proprie truppe schierate in Africa, diminuendo il proprio contributo nel Sahel, per spostare la propria attenzione su paesi come Somalia, Gibuti e Libia. Almeno 1.200 militari statunitensi assegnati alle operazioni speciali sono attualmente di stanza in Africa sui 7.300 sparsi per il mondo, una distribuzione che sarà rimodulata a svantaggio del Sahel, esclusi Niger e Nigeria. Washington sta infatti costruendo una base militare a Niamey che ospiterà principalmente droni armati e altri aeromobili, la Niger Air Base 201, che sarà operativa entro la prima metà del 2019.
Secondo un’analisi di IHS Markit, la proposta del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti di chiudere gli avamposti militari e sette degli otto Comandi operativi speciali nei paesi dell’Africa sub-sahariana, in particolare nell’Africa centrale e occidentale, escludendo Nigeria e Niger, deriva da “una nuova strategia che si concentra sulla ‘grande competizione di potere’ con Cina e Russia”, un probabile indicatore” del fatto che Washington “sta spostando la propria attenzione principalmente verso il Corno d’Africa, in particolare la Somalia, mentre l’Unione europea continua a concentrarsi sulla regione del Sahel”. Il ritiro dell’impegno statunitense da paesi come Burkina Faso, Ciad, Mali e Camerun, “può ostacolare la stabilità e la capacità dei governi regionali di contrastare l’insurrezione jihadista nell’Africa sub-sahariana”.
In questa situazione, l’Europa sta invece mantenendo il proprio impegno nella regione, che vede ad esempio la missione di addestramento dell’Unione europea (EUTM), che schiera in Mali 600 militari di diversi paesi europei, e la missione di pace delle Nazioni Unite (MINUSMA), composta da oltre 13mila militari provenienti anche da Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Italia, Lettonia, Lituania, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo, Romania, Spagna, Svezia, Svizzera e Regno Unito. La presenza europea in quest’area è giustificata anche dagli investimenti e dagli aiuti concessi ai singoli paesi. Secondo il Servizio di azione esterna dell’Unione europea, Bruxelles e i singoli stati membri hanno già investito oltre 8 miliardi di euro in cooperazione e sviluppo nel Sahel.
Secondo l’analista di IHS Markit, Jihane Boudiaf, “i miliziani attivi in Burkina Faso, Repubblica Democratica del Congo, Niger, Sud Sudan e Sudan, cercheranno probabilmente di sfruttare qualsiasi vuoto di sicurezza lasciato dagli Stati Uniti” e “di conseguenza, è probabile che nei sei mesi successivi al ritiro aumenti il rischio di morte, lesioni e rapimenti a personale militare, dell’Onu, di organizzazioni non governative, a stranieri e civili locali”. In quest’area, secondo un recente rapporto pubblicato dal think thank statunitense Center for Strategic and International Studies (CSIS), operano decine di migliaia di jihadisti, con una cifra compresa trai 3.450 e i 6.900 solo in Nigeria.
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