Sono bastati sei uomini armati fino ai denti, cinque mercenari russi e un francese, per scatenare il panico il 27 settembre del 2018 nella miniera d’oro di Ndassima, in Repubblica Centrafricana. Sono sbucati dalla giungla su due jeep a noleggio e nel giro di mezz’ora si sono impadroniti della miniera.
Di come siano andate le cose si sa poco e nulla perché da quel quadrante di Africa non esce mai niente ma qualche voce è arrivata fino a Bangui, al giornalista Joseph Akouissonne de Kitiki che, in uno dei suoi ultimi report prima della sua scomparsa, racconta che la mezza dozzina di uomini si è messa a sparare raffiche per aria per prendere il controllo di quel buco argilloso e che mentre i pochi dirigenti scappavano a gambe levate le centinaia di uomini che si spaccavano le mani nude nella roccia nel cercare pepite si sono a malapena accorti che stava cambiando qualcosa. Da quel giorno gli uomini di Mosca controllano una miniera che, stando a dati vecchi di un decennio, produce oltre 20 chili d’oro al mese, ovvero più di un milione di euro. Nel mondo della finanza si parla spesso di “hostile takeover”, ma in questo caso ostile è davvero un eufemismo.
La società canadese Axmin, che da 20 anni era proprietaria dei diritti estrattivi si rivolge infatti alle autorità che però non fanno nulla, anzi, nel giro di un anno gli levano la concessione e la passano a “Midas Resources”, «una società con chiari rapporti con i russi», spiegherà alla stampa Crepin Mboli, avvocato della Axmin.
Chi controlla precisamente la Midas però non è chiaro, fondata in Madagascar, ma con sede a Bangui, la Midas è pressoché inesistente ma per le autorità locali non ci sono dubbi: è una società controllata da Wagner, il gruppo di mercenari russo che fa capo al fedelissimo di Putin, Yevgeny Prigozhin.
Celebri per la loro versatilità, gli uomini della compagnia militare privata russa hanno accumulato negli anni un expertise particolare nel reprimere le rivolte civili, terrorizzare la popolazioni locali e innestarsi nei traffici illeciti, e anche in Repubblica Centrafricana non hanno tradito le aspettative, reprimendo nel sangue una rivolta di minatori nella regione di Andaha e riportando la zona limitrofa alla miniera sotto il controllo delle forze governative il 10 febbraio del 2021.
Lo stesso copione sembra essere in corso in Mali dove il gruppo Wagner si sarebbe infiltrato nel dicembre 2021 in seguito alla richiesta delle autorità locali di supporto militare privato per la sicurezza delle più alte cariche dello Stato. Il Paese dell’Africa occidentale è infatti un altro importante produttore d’oro che esporta verso gli Emirati Arabi Uniti fino a 2,9 miliardi di dollari all’anno e altri 1,5 verso la Svizzera. Secondo il Center for Strategic and International Studies, accodati agli uomini della Wagner, a Bamako sono arrivate anche squadre di geologi russi, a testimonianza che un altro scambio tra sicurezza e diritti di estrazione mineraria potrebbe verificarsi molto presto.
Come spiega a TPI l’esperto di Medio Oriente e Africa subsahariana, Wassim Nasr, la presenza dei russi in Mali è «certificata dal tracciamento di velivoli dell’esercito russo che volano da Bamako alle basi russe in Libia o Siria», ma la loro presenza rimane avvolta nell’ambiguità. «L’ambiguità è una delle armi più importanti per gli uomini della Wagner – prosegue Nasr – non solo per non dover rendere conto delle loro azioni ma ha anche il vantaggio di eliminare il rischio di dover intervenire con più truppe in caso di sconfitta». Insomma se le cose vanno male, gli uomini di Prigozhin fanno sparire i morti e negano di esserci mai stati.
Cambia Paese ma lo schema è nuovamente lo stesso, in Sudan una recente inchiesta del New York Times, ha messo in evidenza i rapporti tra Mosca e la Meroe Gold, impresa tecnicamente sudanese che dal nulla ha preso il controllo della miniera d’oro di al-Ibediyya. Dietro alla Meroe Gold, secondo il Tesoro statunitense, ci sarebbero ancora una volta Prigozhin e gli uomini di Wagner, i cui legami con il leader sudanese Omar al-Bashir si sono rinsaldati grazie alla manovalanza dei mercenari russi nelle repressioni delle proteste contro il suo regime. Un servizio che ha garantito la permanenza al potere del leader sudanese che, come pagamento, ha concesso i diritti esclusivi sull’estrazione dell’oro a imprese controllate da Mosca in diversi siti del suo Paese.
Anche nel caso del Sudan le informazioni a disposizione sono pochissime ma se le statistiche ufficiali suggeriscono che il Paese africano non esporta oro verso la Russia, un dirigente di una delle più grandi società aurifere sudanesi ha dichiarato al quotidiano britannico The Telegraph – protetto da anonimato – che Mosca «importa regolarmente oro sudanese e molto di esso viene contrabbandato in piccoli aerei che dagli aeroporti militari sparsi per il Paese, con diversi scali raggiungono la Russia». Come ha spiegato il dirigente al giornale britannico, «circa 30 tonnellate d’oro vengono trasportate in Russia ogni anno dal Sudan», ovvero più di un miliardo e mezzo di euro: due volte il valore dell’incrociatore Moskva affondato il 13 aprile scorso davanti a Odessa.
Protagonista delle relazioni con Mosca il generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemeti, che poco dopo l’inizio della guerra in Ucraina si è recato in visita proprio a Mosca. Al suo ritorno ha organizzato un incontro con i sindacati dei minatori delle miniere d’oro, due cose che, ha fatto sapere attraverso i canali ufficiali, «non erano affatto collegate».
Al centro dei suoi incontri, oltre all’espansione e al rafforzamento della cooperazione tra la Russia e il Sudan, anche l’apertura di una base navale a Port Sudan, che per la Russia sarebbe la prima in Africa dal crollo dell’Urss.
Ma perché Mosca ha tanta fame d’oro? Stando a uno studio della Global Initiative against Transnational Organized Crime, la febbre dell’oro del Cremlino ha origini ben precise, ovvero inizia quando Stati Uniti ed Europa votano le prime sanzioni in risposta all’annessione russa della Crimea nel 2014. Da allora Mosca lavora per rendere la sua economia sempre più resiliente alle sanzioni occidentali portando avanti un lavoro di stoccaggio di riserve auree e valuta estera. Stando allo studio infatti, dal 2014 la Russia ha raddoppiato le sue riserve d’oro portandole a un valore stimato in 130 miliardi di dollari, grazie al metallo estratto all’interno dei suoi confini e a quello trafficato dalle miniere controllate dai suoi paramilitari in Africa.
La scelta di Mosca di affidarsi all’oro è dovuta anche al fatto che, spiegano gli analisti, l’oro è il bene rifugio per eccellenza su cui convergono i capitali degli investitori nei periodi di maggiore volatilità sui mercati, come quello attuale a causa delle sanzioni occidentali. Insomma, più a Bruxelles stringono le maglie delle sanzioni, più il caveau aureo di Mosca prende valore.
Oltre a rinforzare il Cremlino, le scorribande degli uomini della Wagner destabilizzano Bruxelles e la presenza europea nella regione.
Come spiega a TPI l’eurodeputata socialista belga Maria Arena, presidente della Commissione per i diritti umani del Parlamento europeo, «l’utilizzo dei mercenari in Africa è una vera e proprio strategia russa di destabilizzazione del vicinato europeo». «Non è un caso – continua l’europarlamentare – che se guardiamo la mappa delle operazioni della Wagner vediamo che si tratta di una costellazione attorno ai confini europei e sempre vicino al controllo di asset cruciali come i metalli in Sudan o le rotte migratorie in Libia».
Per fermare il traffico di metalli preziosi, l’Europa si è già dotata di una normativa «che andrebbe applicata con più severità». «Si tratta – sottolinea Arena a TPI – della direttiva sull’Approvvigionamento responsabile di minerali originari di zone di conflitto o ad alto rischio». «Imporre sanzioni politiche ai Paesi in cui accadono in traffici ci si può ritorcere contro», continua l’eurodeputata che rimarca come la rottura dei rapporti tra l’Ue e alcuni regimi africani che hanno invitato gli uomini di Mosca «è stato un errore strategico di Bruxelles e delle capitali europee, in quanto i russi si insediano laddove la diplomazia europea fallisce». «Le sanzioni al Sudan per esempio – ha concluso – hanno spinto il Paese nelle mani di Mosca».
L’oro africano però non finisce tutto nei caveau della Banca centrale moscovita, anzi spesso deve trasformarsi in denaro liquido per l’acquisto di materiale bellico per sostenere la guerra in Ucraina e per farlo, visto che i mercati europei sono inaccessibili ai russi, servono degli intermediari.
E qui, stando al Global Initiative against Transnational Organized Crime, entra in gioco Dubai. Gli Emirati Arabi Uniti sarebbero infatti «un attore dominante nel commercio globale d’oro» e un intermediario che, nonostante le sanzioni, «collega la Russia al resto del mondo finanziario». Oltre a ospitare capitali in uscita dalla Russia, come le fortune degli oligarchi, a Dubai accade infatti il miracolo della moltiplicazione del metallo luccicante: secondo i dati commerciali delle Nazioni Unite per il 2020 «c’è infatti una discrepanza di almeno 4 miliardi di dollari tra le importazioni di oro dichiarate dagli Emirati Arabi Uniti dall’Africa e ciò che i Paesi africani affermano di aver esportato negli Emirati Arabi Uniti».
I conti non tornano dunque, e quei 4 miliardi di dollari dovrebbero essere proprio quelli che arrivano dalle miniere nascoste nel cuore dell’Africa, dove mercenari ceceni arrivano in volo dalla Siria per guardare le spalle ai potenti locali ed a riempire jet privati di lingotti destinati e mettere al sicuro le casse del Cremlino dai tentativi occidentali di farle vacillare.
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