La vita sospesa dei Rohingya tra Myanmar e Bangladesh: un limbo fra la persecuzione a casa loro e la segregazione nello stato che li ha accolti
Sono scappati dal Myanmar due anni fa, dopo la persecuzione razziale perpetrata nel loro paese, e si sono rifugiati nel confinante Bangladesh: oggi 750 mila Rohingya, vivono in un limbo. Difficile tornare indietro dopo il massacro subito dalla popolazione. Quasi impossibile rimanere, con condizioni di vita inaccettabili, segregati in campi profughi e abbandonati in povertà assoluta.
Chi sono gli esuli Rohingya
I Rohingya sono una minoranza musulmana dello stato del Myanmar, detto anche Burma o Birmania, ma proprio per la loro professione religiosa sono stati vittima di una discriminazione che ha portato a un’escalation di violenza nel loro paese.
Di fatto, i Rohingya non sono riconosciuti come cittadini birmani (regione a prevalenza buddista), ma vengono considerati dei bengalesi (provenienti dal vicino Bangladesh, che invece è a prevalenza musulmana) finendo nel mirino delle forze armate birmane che hanno dato il via a una vera e propria pulizia etnica.
Chi riesce a sopravvivere alla persecuzione e ad arrivare in Bangladesh riporta una situazione drammatica: dall’agosto del 2017, in migliaia sono rimasti uccisi nel tentativo di fuggire, molti di questi colpiti da una pallottola nel tentativo di attraversare il fiume che fa da confine naturale tra Myanmar e Bangladesh.
La generazione perduta dei bambini Rohingya
Stando ai dati riportati da Save the children, il 55 per cento dei rifugiati Rohingya in Bangladesh sono bambini. Oggi però per il paese è sempre più difficile mantenere i profughi birmani, che si trovano a fronteggiare acqua che scarseggia e notti all’aperto, dal momento che mancano anche i posti per dormire.
Inoltre, si stanno alzando sempre più numerose le proteste dei bengalesi che lamentano che i fondi statali vengano usati per i rifugiati birmani e non per aiutare i bengalesi bisognosi.
Per chi è rimasto in Myanmar, o Birmania, la situazione non è migliore: lo stato rifiuta di ammettere le atrocità commesse, e chi è rimasto è segregato in comunità, lasciato senza lavoro, senza possibilità di istruirsi e senza i servizi minimi.
Il Bangladesh come limite
Quello che ci si chiede è: i Rohingya nutrono veramente la speranza di poter tornare nel proprio paese, in Myanmar o Birmania, con il rischio di non vedersi riconoscere i diritti base, oppure rimarranno dove si trovano ora, in Bangladesh?
Durante il suo discorso davanti alle Nazioni Unite la scorsa settimana, il primo ministro del Bangladesh, Sheikh Hasina ha fatto presente alla comunità internazionale che la situazione nella quale si trova ora il paese è insostenibile.
Lo riporta il Washington Post: la prima ministra bengalese ha messo in evidenza come il suo paese si trovi a gestire una faccenda che il Myanmar ha creato. “Sicuramente è un grande peso per il Bangladesh, non c’è dubbio”. Ha detto Hasina. “Ma quello che queste persone hanno affrontato è molto vicino a un genocidio”. Ha aggiunto, sottolineando il suo supporto alla popolazione dei Rohingya. “Omicidi, torture, incendi. Sono successe così tante cose che sono stati costretti a scappare dalla loro terra per la loro sicurezza.
Dal canto suo, il Myanmar ha dato vita a degli accordi per rimpatriare un piccolo numero di rifugiati, ma il numero delle persone rientrate è così esiguo da non lasciare spazio a un’ipotesi credibile di cambiamento. Gli ufficiali del paese sono arrivati a definire il massacro dei Rohingya del 2017 come una operazione antiterroristica.
Sempre secondo il Washington Post, il primo ministro della Malesia avrebbe dato supporto alle posizioni del Bangladesh sul tema, smentendo quelle birmane. “Il governo del Myanmar continua a sostenere di aver attuato degli sforzi contro il terrorismo”. Ha detto il primo ministro malese alle Nazioni Unite. “Questo ci lascia contrariati, perché sappiamo che quello che sta avvenendo realmente è un genocidio”. Un’ipotesi, quella contenuta nelle affermazioni delle autorità bengalesi e malesi, accreditate anche da un recente report delle Nazioni Unite.
Non si sa quanto ancora il Bangladesh potrà sopportare questa situazione al limite. Questa volta è il Daily Star a riportare che l’intenzione del governo del Bangladesh sarebbe quello di rinchiudere i Rohingya fuggiti dal Myanmar in un territorio circoscritto e delimitato da mura dentate per mantenere la sicurezza all’interno del paese.
Esistono soluzioni pacifiche per i Rohingya?
Un provvedimento che è già stato preso dallo stato invece è quello che prevede il taglio della connessione internet e la confisca di cellulari e schede sim telefoniche, ma solo in alcuni casi. Stando a quanto detto dal primo ministro Sheikh Hasina infatti, i cellulari sarebbero stati lo strumento attraverso il quale i rifugiati avrebbero dato vita a traffico di donne, armi e droga.
“I rifugiati ora sono i benvenuti in Bangladesh”, sostiene il primo ministro del paese. “Sono sul mio territorio, cosa posso fare?”. La sua speranza è che la comunità internazionale raccolga la sua richiesta di aiuto e metta pressione al Myanmar in ogni modo, anche con un embargo sulle armi. “Io non voglio combattere con nessuno”. Ha detto Hasina.
“Cerco una soluzione pacifica perché loro sono i miei vicini di casa. Ma se penso che Aung San Suu Kyi”, il premio Nobel a capo del paese nella sua transizione verso la democrazia, consigliere di stato, “accusava l’esercito. Oggi posso dire che la sua posizione è cambiata”.
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