La vittoria schiacciante alle elezioni di un Premio Nobel per la Pace non garantisce il rispetto dei diritti umani: sembra il caso di Aung San Suu Kyi e della conquista della maggioranza assoluta in parlamento ottenuta alle consultazioni dell’8 novembre, che non promette affatto di mettere fine alle discriminazioni nei confronti della minoranza rohingya.
La condizione delle centinaia di migliaia di profughi e sfollati in fuga uno Stato strategico non solo per il Myanmar ma anche per la competizione di India e Cina nel Sud-est asiatico non accenna a migliorare dopo questo risultato, anzi. Il principale Paese della regione in cui si rifugiano i rohingya ne chiede invece il rimpatrio, con l’avallo di Pechino, senza garanzia alcuna di rispetto dei diritti di questa minoranza, che in gran parte non ha avuto nemmeno accesso al voto.
Un risultato contestato da opposizioni e minoranze
La National League for Democracy (NLD) ha ottenuto la maggioranza assoluta alle elezioni dell’8 novembre in Myanmar, come dimostrano i dati ufficiali divulgati soltanto oggi dalla Commissione elettorale nazionale. Il movimento guidato da Aung San Suu Kyi, leader de facto del Paese ma impossibilitata a ricoprire la carica di presidente perché sposata con un cittadino straniero, ha conquistato oltre metà del parlamento, anche tenendo conto dei posti riservati ai militari in base alla costituzione, pari a un quarto dell’assemblea.
Il movimento al governo sembra così aver superato la già schiacciante vittoria del 2015, visto che il Partito per la solidarietà e lo sviluppo (USDP), all’opposizione e allineato con i militari, è risultato sconfitto in tutto il Paese, avendo ottenuto meno di una trentina di seggi. L’USDP, guidato dall’ex generale ed ex ministro U Than Htay, ha denunciato la mancanza di libertà ed equità nel voto della scorsa settimana, chiedendo le dimissioni della Union Election Commission (UEC) e la ripetizione delle consultazioni.
Nonostante la vicinanza del partito di opposizione ai militari golpisti, le preoccupazioni segnalate dall’USDP non sono del tutto infondate. In base alla costituzione infatti, il governo nomina tutti i membri della Commissione elettorale, accusata anche dalle minoranze di averne impedito il voto.
Secondo una valutazione preliminare del Carter Center, le elezioni si sono svolte senza segnalazioni di gravi irregolarità da parte degli osservatori e gli elettori in grado di recarsi nei seggi hanno potuto “esprimere liberamente la propria volontà alle urne e scegliere i propri rappresentanti”.
Tutto questo sebbene le restrizioni in atto per la pandemia di Covid-19 e il conflitto in corso in molte aree del Paese abbiano impedito a tanti aventi diritto di votare. Oltre due milioni di persone sono state infatti escluse dal processo elettorale a causa di discriminazioni, violenze o altri motivi.
Qualche dubbio sulla stessa possibilità di verificare adeguatamente la regolarità del voto era stato espresso nelle scorse settimane persino dal Norwegian Refugee Council, secondo cui a causa delle restrizioni per la Covid-19, gli osservatori elettorali erano stati costretti a trovare nuove soluzioni, reclutando personale in loco e facendo lavorare gli esperti internazionali per lo più a distanza.
Il giorno delle elezioni, un totale di 43 osservatori dell’ong americana, il più importante e autorevole tra gli osservatori internazionali indipendenti presenti nel Paese asiatico, hanno visitato 234 seggi elettorali in 10 Stati e regioni del Myanmar, giudicando positivamente lo svolgimento delle votazioni nel 94 per cento dei casi.
Tuttavia, la stessa organizzazione statunitense ha definito “non trasparente” il processo decisionale della Commissione elettorale nazionale, denunciando la mancanza di “criteri stabiliti in anticipo” per il rinvio delle elezioni in alcune aree del Paese, che ha privato del diritto di voto circa 1,4 milioni di elettori.
Le decisioni della Union Election Commission (UEC) hanno provocato un tale malcontento da costringere nelle scorse ore il partito di Aung San Suu Kyi a promettere di “dare priorità” alle necessità delle minoranze.
Le tensioni sono state registrate in particolare nello Stato occidentale di Rakhine, dove gli scontri tra l’Arakan Army, un gruppo armato locale, e l’esercito hanno già provocato quasi 89mila sfollati, secondo le ultime stime dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari. Se l’appello senza precedenti lanciato dalla formazione ribelle all’esercito e al governo di tenere al più presto elezioni suppletive nelle aree del Rakhine dove il voto era stato annullato è stato accolto con favore dai militari, i gruppi impegnati per i diritti dei rohingya hanno invece denunciato le discriminazioni imposte contro la comunità per lo più musulmana.
Migliaia di appartenenti a questa minoranza sono infatti stati privati del diritto di eleggere i propri rappresentanti perché spogliati della cittadinanza o rifugiati all’estero, per lo più in Bangladesh.
La questione irrisolta dei rohingya
Già protagonista di due fughe di massa nel 1978 e nel 1991, quando quasi 450mila persone in tutto furono costrette a fuggire dalle violenze dei militari, la minoranza birmana è vittima di abusi e discriminazioni da parte dell’esercito e di movimenti fondamentalisti buddisti, acuitesi negli ultimi 8 anni e in particolare dal 2016.
Nonostante le denunce di “pulizia etnica” di Human Rights Watch e Amnesty International e persino delle Nazioni Unite, le autorità del Myanmar, compresa la premio Nobel per la Pace, si rifiutano di riconoscere le violenze e le discriminazioni contro la comunità.
Criticata sia a livello internazionale che interno per l’atteggiamento troppo morbido assunto durante la coabitazione con i militari, Aung San Suu Kyi, che ha trascorso ben 21 anni agli arresti domiciliari per le proprie idee politiche, non si è dimostrata altrettanto comprensiva con altri dissidenti.
Dopo aver appoggiato due anni fa le accuse di spionaggio contro due reporter birmani di Reuters, la premio Nobel per la Pace e figlia del generale Aung San, uno fra i più grandi eroi dell’indipendenza nazionale, non ha reagito all’arresto e all’incriminazione di ben 331 tra studenti, giornalisti, sindacalisti, attivisti e poeti nel solo 2019, come denunciato da Amnesty international.
Contestata a livello internazionale per il comportamento giudicato indifferente – quando non propriamente ostile – nei confronti dei rohingya, nel dicembre scorso, Aung San Suu Kyi, si è addirittura recata alla Corte internazionale di giustizia (ICJ) de L’Aja per difendere l’esercito del Myanmar dalle accuse di genocidio, omicidi, stupri e deportazione di massa della minoranza musulmana.
Eppure, sin dall’agosto 2017, oltre 909mila rohingya fuggiti in Bangladesh vivono in campi profughi sovraffollati, mentre i 600mila rimasti in Rakhine devono affrontare varie forme di persecuzione, restando confinati in villaggi e località senza alcuna sicurezza alimentare, libertà di movimento né accesso ad adeguati servizi igienici e sanitari o all’istruzione. Almeno 130mila rohingya sono poi internati in campi di detenzione dal 2012.
Inoltre, secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), dall’inizio dell’anno, almeno 2.400 rifugiati, di cui oltre un terzo (il 36 per cento) costituito da minori, ha preso il mare nel Golfo del Bengala per sfuggire alle violenze in atto. Secondo l’Onu, quest’anno almeno 200 tra queste persone sono morte o disperse a seguito di naufragi. Per questo motivo, ben 16 ong internazionali, tra cui Norwegian Refugee Council, Oxfam e Save the Children, hanno lanciato un appello ai leader dell’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico, riuniti nel 37esimo vertice in corso a Jakarta, in Indonesia, per proteggere i rifugiati e prevenire il ripetersi di queste tragedie.
In tale contesto, il ministro degli Esteri del Bangladesh, Masud Bin Momen, aveva annunciato a ottobre l’impegno della Cina a lavorare con il Myanmar per il rimpatrio dei rifugiati rohingya, a seguito di un colloquio telefonico avuto con il suo omologo cinese Wang Yi. Nella stessa occasione, Momen aveva rivelato l’apertura di colloqui diretti sulla questione tra Dacca e Naypyidaw dopo le elezioni.
All’inizio del mese, il Bangladesh, che attualmente ospita circa 1,2 milioni di rohingya, di cui oltre 909mila provenienti dal Myanmar, ha poi chiesto a Cina e India di organizzare un vertice internazionale per il rimpatrio dei rifugiati, che rischiano di restare schiacciati in un gioco tra i colossi della regione.
Il rischio di restare schiacciati dalla competizione regionale di India e Cina
L’appello bengalese mette di fronte le due maggiori potenze regionali in un momento in cui il Myanmar è chiamato a ripensare la propria dipendenza economica dalla Cina. Attualmente, il debito nazionale del Paese si attesta intorno ai 10 miliardi di dollari, di cui 4 dovuti proprio a Pechino.
Naypyidaw deve rimborsare alla Cina fino a 500 milioni di dollari all’anno in quota capitale e interessi. A giugno, il revisore generale dei conti del Paese, Maw Than, aveva sottolineato la maggiore onerosità dei prestiti concessi da Pechino al Myanmar rispetto alle risorse messe a disposizione dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale, una situazione discussa anche al parlamento birmano, dove è stato definito ormai “gravoso” il debito nei confronti della Cina.
L’importanza del Myanmar per Pechino nello scacchiere del Sud-est asiatico è testimoniata anche dall’unica visita finora compiuta quest’anno all’estero dal presidente cinese Xi Jinping, dopo l’ultima cancellata due mesi fa e prevista in Pakistan, altro attore di rilievo nella competizione con l’India.
A gennaio, Xi Jinping ha incontrato a Naypyidaw proprio Aung San Suu Kyi, presenziando poi alla firma di ben 33 accordi tra lettere d’intenti, protocolli e memorandum d’intesa volti allo sviluppo di grandi opere, ferrovie, progetti industriali ed energetici e alla promozione di scambi commerciali e investimenti bilaterali.
Tra le principali iniziative coinvolte dalle più recenti intese firmate tra i due Paesi figura il China Myanmar Economic Corridor (CMEC), un corridoio di 1.700 chilometri istituito nel 2018 per collegare Kunming, capoluogo della provincia meridionale cinese dello Yunnan, ai principali centri economici del Myanmar: Mandalay, Yangon e soprattutto la zona economica speciale di Kyaukphyu, nello Stato di Rakhine, proprio quello da cui fuggono i rohingya.
L’accordo quadro per l’ambizioso progetto di Kyaukphyu, di cui Naypyidaw detiene solo il 30 per cento delle azioni, è stato firmato nel novembre di due anni fa e mira a promuovere lo sviluppo dello Yunnan e al contempo a offrire alla Cina un accesso diretto all’Oceano Indiano, consentendo alle sue importazioni di petrolio di aggirare lo Stretto di Malacca, ricalcando più a est l’iniziativa del corridoio economico sino-pakistano (CPEC).
Così come a Gwadar, in Pakistan, in Myanmar Pechino sta finanziando lo sviluppo di un porto d’altura a Kyaukphyu, nel quadro di una presenza strategica sempre maggiore nell’intero Golfo del Bengala, che prevede anche una serie di investimenti nello scalo marittimo di Chittagong, in Bangladesh.
Tutte queste iniziative preoccupano non poco New Delhi, che all’inizio di questo mese ha deciso – per la prima volta nella sua storia – di regalare un sottomarino militare a Naypyidaw, quattro anni dopo l’acquisto da parte di Dacca di due sommergibili di fabbricazione cinese.
Va ricordato infatti che India e Myanmar condividono 725 chilometri di confine marittimo mentre il Bangladesh si trova incastonato tra i due Paesi. Il tentativo indiano di avvicinarsi alle autorità birmane in un momento in cui Naypyidaw ripensa alle proprie relazioni con la Cina e il suo coinvolgimento nella questione dei rifugiati rohingya mira a ridimensionare le ambizioni strategiche di Pechino nell’Oceano Indiano, considerato da Delhi come il tradizionale giardino di casa.
Intanto la Cina nega di avere mire egemoniche sulla regione, nascondendosi dietro la sempre celebrata “cooperazione vantaggiosa per tutti”. Proprio all’inizio dell’anno, quest’impostazione fu criticata da Amnesty International, che volle ricordare a Pechino e Naypyidaw come i benefici offerti dagli investimenti in infrastrutture possano contribuire ad aumentare gli standard di vita e a promuovere i diritti umani solo se chi sopporta i costi di tali iniziative – “donne, uomini e bambini le cui case, la salute e mezzi di sussistenza sono interessati da questi progetti” – viene adeguatamente consultato prima dell’inizio dei lavori e protetto da potenziali danni.
Alla luce di questo contesto, gli annunciati colloqui diretti tra Bangladesh e Myanmar e il possibile vertice tripartito con India e Cina non rappresentano affatto una buona notizia per la minoranza musulmana oppressa, gli sfollati e i rifugiati all’estero, considerati al più una pedina di scambio nei giochi politici regionali, nonostante le richieste di Dacca di portare davanti alla giustizia i militari e i gruppi responsabili di violenze e discriminazioni nei confronti di questa comunità, non rappresentata neanche in parlamento né attualmente né in futuro.
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