Reprimere e azzerare le proteste «a qualunque costo». Anche a costo di uccidere? «Quelle non sono vite che valgono. Quelli sono traditori: vanno tolti dalle strade. Ad ogni costo». “Quelli” – come li chiamano i più alti in grado tra le Guardie della Rivoluzione – sono le iraniane e gli iraniani che da settimane, giorno e notte, sfidano la polizia morale e non si piegano alle violenze del regime per invocare giustizia, libertà, diritti. A porre la domanda, in piedi mentre incassa quel comando insopportabile, c’è Ehsan, un omone dall’aspetto burbero. Si è impegnato, Ehsan, per ottenere la divisa che indossa, pensava che servire la nazione fosse non solo un onore, ma anche un lavoro onorevole: «Ci sono cresciuto con quest’ideale: poter aiutare a proteggere il mio popolo. Ma ora mi chiedono di ucciderlo e ho deciso di giocare un ruolo diverso in questa storia». Per riuscire a raccontare a TPI quale, ci sono voluti cinque giorni di tempo per organizzarsi, un’ora per garantire una rete sicura attraverso un sistema di server privati e il favore della sera, quando «meno occhi e meno orecchie sono sull’attenti». Perché Ehsan la divisa non se l’è tolta, sta cercando di «difendere l’onore che dovrebbe rappresentare» dall’interno. Sta aiutando i dissidenti direttamente dalla tana del lupo. E, per ora, il lupo non lo sa.
«Alcuni membri delle forze armate si stanno mescolando ai manifestanti. Il loro compito è di riprendere, fotografare, ascoltare: sono ufficiali in servizio in borghese che contribuiscono a identificare e a far arrestare decine di persone non mentre protestano, ma andandole a prelevare ore o giorni dopo direttamente dalle proprie case. In genere, per far sì che la polizia possa distinguerli, si vestono totalmente di nero, ma nel caos delle proteste non è facile accorgersene. Quando è toccato a chi la pensa come me e vuole aiutare i cittadini, abbiamo passato dei biglietti stampati al computer a più persone possibili per avvisarle del pericolo: qualcuno siamo riusciti a farlo scappare in tempo da casa, ma non molti». Una sorta di corrispondenza della resistenza, per non cadere in un inganno costruito nel più classico dei modi: infiltrandosi e facendo spionaggio. Ma c’è di più. «Questa operazione non ha solo la finalità dello spionaggio», ci confida Ehsan. «L’obiettivo è iniziare a far dubitare i cittadini del proprio vicino, fare in modo che nessuno, né nelle piazze né nelle case, si fidi della persona che ha a fianco o di fronte. È anche così, creando ad arte il sospetto e la diffidenza, che man mano vogliono indebolire le rivolte».
Nel frattempo, però, le violenze continuano. Sabato primo ottobre, a Zahedan, nel sud-est dell’Iran, al confine col Pakistan, il fuoco sui manifestanti è arrivato pure dal cielo: un elicottero a quota bassissima ha sparato alla cieca, uccidendo e ferendo un centinaio di persone. «Bisogna capire che le forze armate hanno i mezzi, i soldi e soprattutto la merce di scambio: il petrolio. E lo stanno utilizzando per ottenere rinforzi anche dalla Siria. Più di qualcuno, per le strade, inizia a sentir parlare arabo tra gli uomini in divisa. Questo è sì motivo di preoccupazione, perché l’alleanza islamica tra i fondamentalisti è da temere, ma è anche un segno di grande debolezza. Per gli iraniani sentirsi accomunare agli arabi è sempre stata quasi un’offesa: le nostre origini sono molto diverse, noi siamo quel che resta dell’antica Persia». Perché, allora, chiamare in aiuto gli arabi? Perché l’esercito stesso è diviso al suo interno: molti stanno disertando, con cifre che arrivano anche al 40% soprattutto tra i reparti militari, altri stanno dichiarando pubblicamente di essere contrari alla repressione. Altri ancora, come Ehsan, cercano di aiutare la rivolta. «Non tutti hanno accesso al mio grado di informazione. Tantissimi militari hanno familiari nelle strade e nelle piazze e non intendono obbedire, quindi non solo stanno disertando ma spesso sfilano al fianco della popolazione, cercano soprattutto di difendere le donne se attaccate. È su di loro, in questa prima fase, che i rinforzi stranieri si stanno concentrando: restano in agguato nei vicoli, seminascosti, in attesa di uccidere a freddo».
La tutela dei diritti umani in Iran, dalla rivoluzione del 1979 – dopo la cacciata dello scià e l’avvento del regime – è sempre stata drammatica, ma la polizia morale ha preso il sopravvento, sparando proiettili veri sulla folla ed esibendo violenze e torture alla luce del sole, da quando Ebrahim Raisi è diventato presidente, nell’estate del 2021. «Con lui tutto è degenerato», conferma a TPI il militare. Raisi è infatti l’ex capo del potere giudiziario e faceva parte della cosiddetta “commissione della morte”, organismo che ha presieduto, sancendo l’esecuzione extragiudiziale di «centinaia, se non migliaia, di dissidenti politici nelle prigioni di Evin e di Gohardasht, nel 1988». Insomma, l’Iran ha un presidente sospettato di crimini contro l’umanità.
L’assassinio di Mahsa Amini è stata solo la miccia della rivolta, il simbolo. Ma negli ultimi anni sono tantissimi gli iraniani scappati dal Paese, perseguitati dal regime. Il popolo è stremato, la corruzione dilaga, la gente comune fatica a riuscire a comprare cibo, la ricchezza è spartita tra pochi e la dittatura si sta via via inasprendo. Per questo molti giovani sono scappati, ma sempre per questo molti altri giovani sono rimasti per battersi. «Nonostante gli arresti siano migliaia solo a Teheran, dove l’accanimento colpisce in particolare le giornaliste – conferma Ehsan – il regime non è riuscito a calmierare le proteste e neppure a diradarle. Più arrestano, più gente scende per le strade per fare la staffetta. Altre volte ci sono state proteste, ma questa volta è diverso. Questa volta forse possiamo farcela». Questa volta, a cadere è stato il velo della paura. «Se l’Iran vince questa battaglia, per la Repubblica islamica si crea uno squarcio, la resistenza diventerebbe un simbolo, un segnale. E c’è il terrore che questo scateni un effetto domino incontrollabile: ecco la ragione per la quale le altre dittature corrono in suo aiuto, la stessa per la quale il popolo grida “sei tu il nostro Daesh, sei tu la nostra al-Qaida” rivolgendosi al governo. Se questa rivoluzione andrà a buon fine, sarà l’evento che segnerà la storia di questo secolo».
Per chi si trova in Iran è fondamentale che delle rivolte si parli anche all’estero. La repressione contro la stampa si è intensificata enormemente negli ultimi giorni: il 27 settembre sono stati incarcerati 29 giornalisti, fra cui la fotoreporter Yalda Moaiery e Nilufar Hamedi, cronista che ha rischiato la vita per documentare la morte di Mahsa Amini. «Queste persone sono in isolamento e stanno subendo torture durante gli interrogatori che si svolgono quotidianamente: le donne in particolare vengono percosse sul seno, picchiate, umiliate, in alcuni casi ho visto utilizzare anche scosse e scariche elettriche». Secondo il bollettino che Ehsan sta compilando e divulgando ai mezzi di informazione, sono oltre 400 i morti, duemila i feriti e più di 20mila i detenuti. E le città in rivolta sono salite a 170, numero a cui si aggiunge il supporto dei giovani nelle Università, che chiedono la scarcerazione dei loro coetanei. I numeri ufficiali sono invece ben diversi: secondo il regime, i manifestanti morti durante le proteste sono poco più di 40 e circa 1.200 gli arrestati. Cifre assolutamente falsate: basti pensare che nella sola Teheran (dato aggiornato al primo ottobre) i media internazionali contano più di 3mila persone arrestate, compresa l’attivista Fazeh Hashemi, figlia dell’ex presidente iraniano Ali Akbar Hashemi Rafsanjani.
Intanto Raisi sta isolando i manifestanti il più possibile, sta bloccando il controesodo degli iraniani che tentano di tornare in patria: alcuni nemmeno riescono ad uscire dall’aeroporto, dove viene loro sequestrato immediatamente il cellulare. Isolare, arginare, dividere, torturare. A Mashhad, nel nord-est dell’Iran, un’anziana signora ha affrontato a viso aperto la polizia antisommossa. Si è parata davanti agli agenti, coperta dal suo chador, li ha guardati negli occhi e ha detto: «Perché fate del male ai vostri concittadini? Perché picchiate i figli degli altri? Quanto vi pagano per ammazzare la vostra stessa gente?». La scena è stata ripresa in un video che è riuscito a liberarsi dalle briglie oscurantiste: qui si vede un uomo farsi largo tra la folla e baciare la mano della donna, inchinandosi al cospetto del suo coraggio. «Oltre quarant’anni fa hanno imposto l’hijab e i nostri padri non hanno detto una parola. Oggi gli uomini muoiono per difendere i diritti delle donne: questa, in sé, è già una vittoria. Certo, non basta: stiamo lottando e io aiuterò come posso, cerco di passare maggiori informazioni possibili a chi protesta, di allertarli sul posizionamento dei cecchini nei vicoli, di informarmi sul luogo di detenzione dei prigionieri per comunicare alle famiglie se sono vivi. Sto già lavorando alla mossa successiva», confessa il militare. Quale? «Eh… – sospira – far arrivare le proteste nelle carceri in cui sono detenuti i manifestanti arrestati, portare la piazza lì, documentare». Come? Dentro e fuori dall’Iran i fedeli alla linea di Raisi stanno già compilando le liste dei traditori, includendo i giornalisti che stanno scrivendo delle rivolte sulla stampa estera, a partire da coloro che si trovano in Italia e in Inghilterra. «Come, mi chiedi: con onore. Quello che dovrebbe rappresentare questa divisa. Parlate di noi e se non potete davvero fare nulla per aiutarci, augurateci buona fortuna». Già. Buona fortuna, Ehsan.
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