Mi hanno sempre colpito, viaggiando in Medio Oriente, le distese di buste di plastica abbandonate ai margini delle strade. Mi sono sempre chiesta perché nessuno si prendesse la briga di raccoglierle.
Per questo non mi sono stupita, quando nell’estate del 2015 i media di tutto il mondo hanno scoperto che Beirut, stava annegando nella spazzatura. È un evento periodico, ma ho ricominciato a chiedermi con insistenza come mai nella regione ci sia così scarsa sensibilità ecologica.
Per quanto riguarda il Libano, la prima osservazione da fare è che la sostanziale assenza delle istituzioni, la mancanza quasi totale di servizi pubblici di base – dalla sanità, alla fornitura affidabile e costante di energia elettrica – non possono che confinare la problematica ambientale in fondo alla lista delle priorità.
Durante una lunga conversazione su Skype, un amica siro-canadese, Dana Kandalaft, attivista per l’ambiente che ha abitato in Libano, mi ha detto: “In un momento storico in cui i governi e le istituzioni ci deludono, la società civile si rimbocca le maniche per supplire alle loro mancanze e rimediare ai loro fallimenti”.
È quello che è successo nel paese dei cedri, dello stato inconsistente e disfunzionale per antonomasia, che ha impiegato 29 mesi di negoziati, alleanze improbabili e colpi di scena per scegliere il suo nuovo presidente.
Recycle Beirut
La prima storia è ambientata nella capitale libanese. Recycle Beirut è nata nel 2014 dall’iniziativa di Sam Kazak e Alexander McHugh. Raccoglie materiali riciclabili (plastica, vetro, carta, metallo e legno) e li rivende agli stabilimenti per il riutilizzo dell’area di Beirut.
Serve circa 700 clienti e raccoglie tra le tre e le quattro tonnellate di rifiuti al giorno. “Credo che nell’area di Beirut, quella più densamente popolata del Libano, si producano circa tremila tonnellate di rifiuti al giorno”, mi spiega Kazak. “Ma non sono certo di questa cifra, perché è difficile trovare dati affidabili”.
Uno studio relativo al 2013, compilato dall’ente di Cooperazione tedesca in Libano, riporta una stima di oltre 2 milioni di tonnellate di immondizia all’anno.
(Un impiegato della Recycle Beirut raccoglie gli imballaggi in cartone da riciclare. Credit: Recycle Beirut/Facebook. L’articolo prosegue sotto l’immagine)
Il servizio di raccolta a domicilio costa 10 dollari a ritiro. A questi si aggiungono i ricavi derivanti dalla vendita del materiale agli stabilimenti, ma sono molto bassi. Si tratta di 55 dollari la tonnellata per il vetro, 90-100 dollari per la latta, 90 dollari per gli imballaggi di cartone, 166 dollari per la plastica, 50 dollari per quella isolante e 75 dollari per la carta.
Questo fa di Recylce Beirut una realtà interessante, riconosciuta anche dall’Unhcr, l’Agenzia Onu per i rifugiati, perché impiega profughi siriani. “Stiamo ancora cercando di sviluppare un modello imprenditoriale sostenibile”, afferma Kazak sulla ridotta capacità di guadagno.
Il problema della sostenibilità economica accomuna Recycle Beirut a un’altra iniziativa con una storia e un’ambientazione molto diverse.
Nida al-Ared e le donne di Arabsalim
Nel 1995 la situazione nel sud del Libano era molto difficile: le truppe israeliane combattevano nell’area una “guerra a bassa intensità”(1985-2000). Ogni cosa era complicata, persino raccogliere e smaltire la spazzatura.
Allora un’insegnante del villaggio sciita di Arabsalim coinvolse altre donne della sua comunità nella raccolta di plastica, vetro e metallo da riciclare.
All’inizio non ottennero alcun supporto, in un contesto tradizionale come quello di Arabsalim, che relegava le donne all’ambito domestico.
Poi Zeinab Muqalled, oggi ottantenne, conquistò il sostegno del governatore locale. C’erano voluti tre anni.
L’organizzazione ottenne anche l’appoggio del Programma della Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) e nel 2008 ricevette circa 29mila dollari in aiuti dall’Italia per comprare macchinari.
Nida al-Ared (Appello della Terra), fondata ormai vent’anni fa, coinvolge 13 donne di Arabsalim, tutte volontarie, appartenenti a diverse generazioni.
I suoi addetti passano a raccogliere la spazzatura gratuitamente ogni mese, casa per casa (circa il 70-75 per cento della popolazione locale si rivolge all’organizzazione), e la porta in un magazzino per separarla.
Il materiale è poi rivenduto agli impianti di riciclaggio che pagano davvero poco. Farhat mi dice che ricevono 150 dollari per ogni tonnellata di plastica, a fronte di una spesa di circa il doppio.
(Nida al-Ared racoglie vetro, metalli e plastica da riciclare nel villaggio di Arabsalim. Credit: Nida al-Ared. L’articolo prosegue sotto l’immagine)
Il problema istituzionale e quello culturale
Con le strade di Beirut inondate di immondizia finite sui giornali di tutto il mondo, l’esperienza di Arabsalim è diventata un modello da imitare.
Hiba Farhat, una delle donne più giovani coinvolte nel progetto, mi spiega che vorrebbero trasmettere la loro esperienza ad altri villaggi, ma che replicarla è difficile: “Non possiamo rimpiazzare il governo”, dice sospirando.
Questo è il nodo principale del problema della spazzatura e della sensibilità ecologica libanese. Un governo disfunzionale e la diffusa corruzione – me lo ha ripetuto qualsiasi libanese con cui abbia affrontato l’argomento – sono i problemi principali.
Ma Farhat spiega qual è la psicologia del disinteresse della gente. Da un lato, i libanesi hanno preoccupazioni più impellenti, come i continui conflitti – “appena finisce una guerra ne comincia un’altra”, dice Farhat; ci sono i servizi pubblici inesistenti o le istituzioni inconsistenti.
Dall’altro, i libanesi non nutrono la minima speranza che si possa cambiare, perciò non vedono alcuna ragione per impegnarsi nello sforzo sovraumano di supplire alle carenze dello stato. I cittadini si adeguano, con una mentalità fatta di disfattismo e di mancanza di qualsiasi senso di responsabilità.
Ho chiesto anche a Kazak quali sono le ragioni della scarsa sensibilità ecologica in Libano. “Il primo problema è sicuramente la politica”, conferma. “Ma il vero problema è la gente. Alcuni non sono abbastanza istruiti per capire quale sia l’impatto dell’inquinamento e della loro immondizia sull’ambiente. Altri preferiscono semplicemente pensare ad altro: alle macchine, ai vestiti, al loro stile di vita. È un modo di vivere molto libanese, prestare più attenzione all’apparenza che alla sostanza”, dice con una nota di disprezzo nella voce.
Recycle Beirut coinvolge i rifugiati siriani – a cui in linea teorica non è consentito lavorare in Libano, divieto ignorato pressoché da tutti i datori di lavoro. “Un lavoro sporco come questo i libanesi non si abbasserebbero mai a farlo”, sottolinea Kazak.
“Considerano poco dignitoso anche solo parlare di spazzatura. Preferiscono pensare che nelle loro vite tutto sia perfetto e chiudere gli occhi davanti ai problemi”, prosegue con amarezza.
Le stesse proteste per le strade di Beirut – anche questo me l’hanno confermato persone con cui ho parlato – sono svanite in fretta quanto erano comparse, un fuoco di paglia.
(Quando la spazzatura invade le strade a volte viene bruciata. Credit: Recycle Beirut/Facebook. L’articolo prosegue sotto l’immagine)
Non solo un problema istituzionale, quindi, ma soprattutto culturale.
Le donne di Nida al-Ared partecipano a workshop in Libano e all’estero per parlare della loro esperienza e occasionalmente ricevono la visita di classi scolastiche.
Anche Recycle Beirut vorrebbe fare di più per attirare l’attenzione: “Stiamo cercando fondi per sostenere il nostro progetto e per avviare iniziative di sensibilizzazione, come andare a parlare nelle scuole”, mi dice Kazak.
Malgrado l’importanza di iniziative come queste, il problema della spazzatura e della conservazione dell’ambiente in Libano è talmente profondo che solo un intervento del governo sarebbe risolutivo.
Ma la società che ha in appalto la gestione dei rifiuti, Sukleen, non brilla certo per trasparenza e efficienza. Tra le persone che ho interpellato c’è chi si rifiuta persino di pronunciarne il nome.
Funzionari politici, imprenditori e mafie lucrano sulla spazzatura senza smaltirla, approfittando di contratti ottenuti grazie a conoscenze e tangenti: la vecchia melodia del sistema wasta (o clientelare), diffuso nel mondo arabo – non certo assente sulla sponda opposta del Mediterraneo.
Perciò le iniziative ambientaliste arrivano quasi esclusivamente da progetti locali e dal settore privato. Le opzioni ecofriendly sono un lusso riservato alle persone benestanti, mentre gran parte della popolazione si dibatte nella lotta quotidiana per far fronte ai bisogni che le infrastrutture e i servizi pubblici non sono in grado di fornire, incluse le opportunità economiche.
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