Fino a pochi giorni fa, visitando l’ufficio d’interessi americano sul lungomare di l’Avana, a Cuba, sarebbe stato difficile immaginare che quello stesso edificio sarebbe diventato sede di un’ambasciata. A pochi metri dall’ingresso il governo cubano ha fatto sistemare la bellezza di 138 bandiere nazionali che ne occultano la facciata, con la gigantesca scritta Castrista: “Patria o muerte, venceremos”.
“Non si tratta di una provocazione”, spiega Pedro, che lavora per l’agglomerato statale che gestisce turismo e patrimonio culturale. “Fu Bush figlio a esporre uno schermo luminoso che proiettava notizie tendenziose riguardo il regime di Fidel Castro e i suoi rapporti con gli Stati Uniti. Da allora il governo gli ha piazzato davanti questa schiera di bandiere per oscurarlo”.
Chissà se con il riavvicinamento fra Obama e Raul Castro, iniziato con la storica stretta di mano al funerale di Nelson Mandela nel dicembre 2013, verranno rimosse le bandiere simbolo di una disfida quotidiana.
Se lo augura Julio, che indossa una coraggiosa maglietta con la scritta hope (speranza) e il faccione di Obama, e probabilmente molti dei suoi concittadini che ogni giorno transitano sul Malecón – il lungomare di l’Avana – con le loro automobili americane anni Quaranta e Cinquanta. Sono le stesse dall’inizio del bloqueo, l’embargo economico post-rivoluzionario entrato in vigore nel 1962, a parte che oggi vederle partire sembra sempre un miracolo.
Il 14 agosto è stata riaperta l’ambasciata statunitense a Cuba. La cerimonia era stata inizialmente fissata il 13, ma è stata rinviata di un giorno perché il 13 è l’ottantanovesimo compleanno di Fidel. Pareva troppo beffardo ai funzionari di l’Avana farla coincidere con i festeggiamenti per il leader maximo, che secondo la vulgata nazionale sarebbe stato oggetto di ben 634 tentativi statunitensi di eliminarlo.
Uno dei più insoliti lo racconta Pedro Juan Gutiérrez nel libro Trilogia Sporca dell’Avana: un agente Cia in incognito si avvicina a Fidel e riesce a diventare suo amico facendo leva sulla passione comune per la pesca subacquea. La muta di neoprene impregnata di una sostanza velenosa che gli regala lo porterà dritto in cella insieme a tutti gli altri gusanos, i controrivoluzionari che in quel fatidico 1959 affollavano le carceri cubane.
Aneddotica a parte, le ingerenze a stelle e strisce in America latina sono da sempre nemico giurato dell’internazionalismo rivoluzionario di Fidel Castro, che non a caso ha fatto chiamare “piazza anti-imperialista” lo slargo dove sorgeva l’ufficio di interessi divenuto ora ambasciata americana.
Culmine del confronto fu la celebre invasione della Baia dei Porci nel 1961, l’incerto tentativo di Kennedy di rovesciare il regime comunista due anni dopo la rivoluzione. Millequattrocento esuli cubani utilizzati dai servizi segreti americani nell’attacco rimasero prigionieri a Cuba dopo il fallimento dell’operazione, che sancì l’aurea d’invincibilità del regime dei Castro.
Dopo decenni di tentati contatti e riavvicinamenti, sempre arenatisi fra diffidenze reciproche, Cuba e Stati Uniti paiono ora muoversi con serietà verso la normalizzazione delle relazioni. Sarà perché il timone è passato nelle mani del meno anti-americano Raul, sarà perché un presidente come Obama sul finire del suo mandato rappresenta un’occasione unica, o più concretamente perché il sostegno petrolifero venezuelano rischia di scemare con la caduta del prezzo del petrolio, facendo balenare lo spettro di un nuovo periodo especial, gli anni di profonda crisi economica seguiti alla caduta dell’Urss.
Il 20 luglio i due Paesi hanno così deciso di riavviare i contatti diplomatici. Un cambiamento politico che va di pari passo con l’avvio del lento processo di liberalizzazione e apertura all’economia globalizzata.
“La nostra compagnia statale una volta era egemone in fatto di servizi turistici, dalla gestione di ristoranti e alberghi fino alle catene di produzione per i rifornimenti”, spiega di nuovo Pedro, “ma dal 2011 i nuovi permessi per esercizi privati hanno cominciato a mettere le nostre strutture meno efficienti in grave difficoltà, e le multinazionali cominciano a fare capolino”.
Raquel Mena, un’abitante del quartiere Vedado, è stata una delle prime a richiedere il permesso al governo per affittare ai turisti le camere della sua abitazione sul Malecón. “Ormai il fenomeno delle casas particulares riguarda centinaia di migliaia di cubani in tutta l’isola”, dice, “il Glasnost di Raul – ovvero la politica di aperture inaugurata nel 2008 – è stato un sollievo per tutti, anche se il processo per ottenere l’ok governativo rimane una tipica battaglia burocratica cubana”.
La figlia Georgina, che gestisce con entusiasmo il piccolo business privato di famiglia, si inserisce nella conversazione allungando il biglietto da visita per le abitazioni: “L’80 per cento di noi cubani ha parenti negli Stati Uniti, soltanto a Miami c’è quasi un milione di nostri connazionali”, dice, “ovvio che la pace renderebbe la vita più facile a tutti, senza nulla togliere alla rivoluzione e ai suoi successi in campi come sanità e alfabetizzazione”.
Da luglio Georgina può avvalersi dell’accesso a internet per accordarsi con i clienti stranieri, una vera rivoluzione per lei e per tutti i cubani che affollano le sedi dell’Empresa de Telecomunicaciones de Cuba per aggiudicarsi una delle preziosissime tarjetas de navegación.
“Prima la connessione era concepita solo per usi istituzionali, come nelle scuole o negli ospedali”, raccontano i cubani che aspettano il loro turno in lunghe file sotto il sole. “Ora l’accesso è permesso anche ai privati, ma in molti del locali autorizzati le connessioni wi-fi sono lente e spesso inspiegabilmente fuori servizio”.
Nonostante i difetti e le asperità, i bar forniti di connessione come il Caffè Ciudad di Camaguey sono gremiti di cubani, così come le halls degli alberghi sono gremite di occidentali che – con i loro smartphone alla mano – litigano con le complessità dei codici per il wi-fi.
Juventud rebelde, uno dei quotidiani nazionali insieme a Granma e Trabajatores, dedica un’intera pagina alla liberalizzazione del web, con le immagini dei cubani che cominciano a sviluppare la dipendenza da laptop, tablet e smartphone a noi fin troppo nota.
Mentre Cuba si apre al mondo, il mondo viene a Cuba, forse per vederla prima che cominci ad assomigliare troppo ad un “non-luogo” di catene globali e prodotti già visti a casa propria.
Secondo l’istituto Nazionale di Statistiche e Informazione cubano il turismo sarebbe in crescita del 16 per cento rispetto all’anno scorso. Dato ancor più rilevante, riportato invece dal Granma, fra gennaio e luglio le visite di turisti americani sono salite del 54 per cento.
“Secondo i miei calcoli il 2015 potrebbe chiudersi con più di tre milioni e mezzo di turisti internazionali”, dice l’economista José Luis Perellò, “di cui quasi 150.000 di nazionalità americana”.
Un’ondata particolarmente significativa è prevista per il mese di settembre, quando a Cuba arriverà anche Papa Francesco. La costruzione del palco per la messa è in corso nella “piazza della rivoluzione” di l’Avana, sotto le gigantesche effigi degli eroi rivoluzionari Che Guevara e Camillo Cianfuegos.
Qui, nel 1998, Papa Wojtyła era riuscito a radunare un milione di persone, in un Paese che ne conta poco più di dieci. Bergoglio ha buone chances di non essere da meno, in particolare dopo aver rivestito un ruolo decisivo nelle trattative fra Raul Castro e Obama.
Chissà se, dopo aver attraversato le strade di l’Avana – dove non esistono cartelloni pubblicitari ma solo poster di propaganda di un governo che non ha mai ostacolato l’osservanza del cristianesimo se non nella misura in cui lo identificava con l’ancien regime – Francesco riuscirà a porre un’altra pietra miliare nella direzione della normalizzazione.
Gli ostacoli rimangono significativi, e le promesse fatte da Raul – fine immediata dell’embargo e restituzione di Guantanamo – sono premature. Bisogna ancora fare i conti con questioni come i miliardi di dollari di proprietà confiscate a cittadini americani dopo la rivoluzione, o come lo spettro di una vittoria repubblicana nelle presidenziali americane nel 2016. Ma ci sono segnali incoraggianti.
Secondo Carlo Feltrinelli, amministratore della casa editrice che per prima pubblicò i diari del Che in Bolivia e trattò a lungo la pubblicazione delle memorie di Fidel Castro a tu per tu con lui, il ventesimo secolo si esaurirà solo con la morte del leader maximo.
“Conosco bene la tesi del secolo breve di Hobsbawn”, spiega, “Ma per me il Novecento finirà nel giorno dei suoi funerali, a cui non potrò mancare”. Vuoi vedere che Papa Francesco, mettendo fine al decennale conflitto fra gli Stati Uniti e Cuba, riuscirà a chiudere il secolo dello scontro di ideologie ancor prima della morte di Fidel?
Questo articolo è uscito su l’Espresso a questo link
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