Vestiti militari, voce profonda, lineamenti duri e pipa in bocca: solo il suo nome e il passaporto indicano che Diana è una donna. Si tratta di una delle ultime burrnesha, le vergini giurate dell’Albania.
Per godere delle libertà e dell’indipendenza concesse agli uomini, le burrnesha fanno voto di castità e rinunciano alla loro femminilità. Si vestono, si muovono e parlano come fossero uomini, riferendosi a se stesse con pronomi maschili.
La scelta non è dettata né da motivi religiosi né dall’orientamento sessuale. La ragione è prettamente sociale: nelle comunità rurali dell’Albania, sino a poco tempo fa, essere donna significava essere condannate a una vita subalterna. Le ragazze non avevano alcun diritto e venivano spesso trattate come schiave, costrette a obbedire ciecamente agli ordini dei mariti o dei parenti maschi. Trasformarsi in un uomo, per alcune, era l’unico modo per sfuggire a questo destino.
La società balcanica è oggi più aperta rispetto al passato e la pratica delle burrnesha si sta gradualmente estinguendo. In Albania, in alcune aree del Montenegro e del Kosovo sono circa 200, la maggior parte in età avanzata.
Il termine significa “lui-lei”: la burrnesha è una creatura a metà, un corpo di donna abilmente celato dietro una vita da uomo. “Ho fatto questa scelta per avere più libertà”, racconta Diana. Diventò una burrnesha a 17 anni, ma afferma di essersi sentita un ragazzo sin dall’infanzia. Andava a caccia, giocava a calcio, indossava i pantaloni, beveva alcolici e fumava: attività negate alle donne albanesi dell’epoca e tuttora considerate poco decorose.
Ci sono anche casi di donne divenute burrnesha per non sposarsi o per opporsi a matrimoni imposti dai genitori, talvolta combinati con uomini più vecchi di 20 o 30 anni. Altre invece lo sono diventate sotto la pressione della famiglia, perché nascere donna era considerata una disgrazia.
La pratica ha origini antiche e si pensa derivi dal Kanun, un codice di leggi tradizionali che risale al 15esimo secolo. Secondo il codice, quando l’erede maschio di una famiglia moriva, le proprietà familiari potevano essere trasferite alla figlia femmina solo a patto che fosse vergine e giurasse di far voto di castità per il resto della sua vita. Solo così avrebbe potuto preservare “l’onore” della famiglia.
Il Kanun è una delle massime espressioni della cultura patriarcale albanese: affermava che “la donna è un otre fatto solo per sopportare” e che “il sangue della donna non è da paragonarsi a quello dell’uomo”. Quando una donna si sposava, secondo il codice il padre poteva nascondere un proiettile nella sua valigia, autorizzando il genero a utilizzarlo nel caso la sposa si ribellasse o commettesse adulterio.
Il codice è stato abolito, ma la società albanese – soprattutto nelle aree rurali – resta fortemente maschilista e patriarcale. Ancora oggi le donne non possono godere dell’eredità: i matrimoni combinati sono abbastanza comuni e si praticano aborti selettivi se il feto è di sesso femminile e la famiglia vuole solo figli maschi. È diffusa anche “l’imenoplastica”, l’operazione chirurgica per ricostruire l’imene e far tornare “vergini” le ragazze.
Grazie alla crescita economica del Paese degli ultimi anni, però, sempre più donne sono riuscite a emanciparsi: “Oggi le donne sono più libere. Non hanno bisogno di diventare burrnesha per scappare dalla loro condizione”, conclude Diana.
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