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    Reportage TPI: Belfast è lo specchio del conflitto in Medio Oriente

    I muri fanno parte delle Peace Lines, chilometri di cemento armato e filo spinato rimasti in piedi dopo la fine della guerra civile che ricordano la barriera con Gaza. Credit: Michela A.G. Iaccarino - TPI

    Cattolici filo-palestinesi e protestanti filo-israeliani. L’Irlanda del Nord rivive lo scontro ideologico (e religioso) che infiamma la Terra Santa per la guerra a Gaza. Il reportage di TPI

    Di Michela A.G. Iaccarino
    Pubblicato il 14 Giu. 2024 alle 16:35

    Le case di mattoni rossi e porte dello stesso colore stanno a poche centinaia di metri l’una dall’altra, immerse in un silenzio funereo, lungo il limes della città dove gli abitanti si accusano, ancora oggi, di stragismo a vicenda. «Un mondo solo, una lotta sola», si legge su uno dei murales dei Falls, la strada di Belfast diventata simbolo della guerra civile che si consumò dagli anni ’60 ai ’90 tra irlandesi repubblicani e britannici unionisti.

    Targhe e coccarde commemorano molti dei morti che persero la vita negli scontri contro i protestanti supportati dall’esercito britannico e, a qualche metro dal celebre murales di Bobby Sands, c’è una delle innumerevoli bandiere palestinesi dipinte sui muri della zona irlandese. Dal lato unionista, invece, stelle di Davide e ritratti dei martiri dei monarchici in divisa.

    Confini invisibili
    Anche alla latitudine nordirlandese ci sono Israele e Palestina, ma in miniatura. Rossi i fiori lasciati ai murales per Gaza e West Bank dai repubblicani, rossi pure quelli lasciati dai protestanti ai piedi del ritratto di John Henry Patterson, del tutto sionista e per niente ebreo, che a 17 anni, nel 1885, si arruolò nella legione ebraica dell’esercito britannico. Quando le ceneri del colonnello morto nel 1947 sono state trasferite in Israele nel 2014, ad accoglierle è stato il figlio di uno dei suoi più cari amici: «Ho il privilegio di onorare il suo ultimo desiderio», ha detto all’epoca il premier israeliano Bibi Netanyahu.

    Tra la Repubblica d’Irlanda europea e l’Irlanda del Nord, ormai fuori dall’Ue, il confine è un velo invisibile: non esiste. Invece quello tra le due comunità, nelle città come Belfast, è rimasto. Le Peace Lines, le «linee della pace», barriere che servivano a separare i quartieri cattolici da quelli protestanti, sono rimaste in piedi insieme ai cancelli dei checkpoint, sempre aperti, ma non smantellati. Sembrano enormi punti di sutura di cemento armato e filo spinato sulla mappa e, in quale delle due zone sei, te lo dicono i muri: irlandesi per Gaza, anglo-irlandesi per Tel Aviv.

    «Il conflitto palestinese è visto tramite il prisma della guerra irlandese, perciò oggi a Belfast i nazionalisti repubblicani simpatizzano con la Palestina, i lealisti unionisti con Israele», dice a TPI Jane Ohlmeyer, autrice di “Irlanda, imperialismo e prima età moderna”. La professoressa che alla Trinity di Dublino insegna Storia moderna ricorda che «l’Irlanda è stata il modello per le partizioni nel mondo: alla legislazione che ha diviso l’isola, il government of Ireland Act del dicembre 1920, si sono ispirati per dividere India e Pakistan nel 1947, Israele e Palestina nel 1948». Gli accordi del Venerdì Santo hanno poi forgiato la pace sull’isola: «Quella soluzione dei due Stati – si chiede l’accademica – può essere un raggio di speranza in questo momento incredibilmente buio per fornire un modello per la pace in Medio Oriente?».

     

    Il doppio standard europeo

    Dublino a maggio scorso si è costituita parte civile al fianco del Sud Africa nella causa per genocidio contro Israele avviata alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja. «Il genocidio non lo avete ancora condannato. Vogliamo una risoluzione. Il silenzio è una scelta e non è una di quelle buone». Nei suoi ripetuti interventi l’eurodeputato irlandese Mick Wallace, insieme alla collega Clare Daly, dagli scranni taccia quotidianamente l’Ue di doppio standard: «Come farete a parlare di nuovo di diritti umani?».

    Gli irlandesi vedono nelle immagini di sangue in arrivo da Gaza un remake della loro tragedia sotto altre forme, dall’altro lato del mondo, e senza ambiguità lo ha spiegato, accanto ad un visibilmente corrucciato presidente Usa Joe Biden, l’ex premier Leo Varadkar: «Vediamo la nostra storia nei loro occhi. Una storia di espropriazione e sfollamento, di discriminazione e ora di fame, di identità nazionale messa in discussione e negata, di emigrazione forzata». Varadkar ha ormai ceduto la poltrona di Taoiseach (in gaelico: capo del governo) a Simon Harris (che gli ha strappato anche il record di leader più giovane della storia del Paese). Il 37enne ex ministro dell’Istruzione ha usato queste parole, quando la sua Dublino, insieme a Oslo e Madrid, ha annunciato la storica decisione di riconoscere lo Stato palestinese: «Non è mai il momento sbagliato per fare la cosa giusta».

    Eppure per Zoe Lawlor, leader dell’Ipsc (Campagna solidarietà Irlanda-Palestina), dichiarazioni o scelte rivoluzionarie non sembrano abbastanza: «Certo, il nostro governo non è terribile come gli altri, ma blocca ogni minima sanzione a Israele. Ostacola, per esempio, la perquisizione degli aerei americani che transitano sul nostro suolo verso Tel Aviv». 

    “Ursula you can’t hide, we charge you with genocide”, «Ursula non puoi nasconderti, ti accusiamo di genocidio», è il coro che ormai intonano migliaia di persone contro la presidente della Commissione Ue quando scendono in strada a Limerick ogni sabato per le marce per il cessate il fuoco. «Non ho mai visto niente del genere: le persone, dall’inizio della guerra, in tutto il Paese, rimangono in strada; nascono continuamente gruppi auto-organizzati, comunità di solidarietà (“psicologi per la Palestina”, “atleti per la Palestina”, “maestri per la Palestina”). Le manifestazioni continue, non solo nelle grandi città, ma anche in piccoli villaggi e paesini, forzano il governo ad agire, nonostante l’Ue. Ho sentito, per esempio, che un deputato ha ricevuto settemila e-mail dai suoi elettori che chiedevano di tagliare legami “commerciali e diplomatici con Israele”», ci dice l’insegnante diventata attivista da bambina, quando ha finito di leggere “Heroes” di John Pilger. Irlandesi e palestinesi, fratelli di fame: le carestie imposte da Londra nei secoli sono ancora parte integrante della memoria collettiva. «Come i palestinesi, siamo stati colonizzati, espropriati, vittime di razzismo, costretti alla migrazione. Ricordiamo la violenza settaria, la segregazione, il regime di apartheid. Questo è il “bond”, il legame, sentiamo una responsabilità generazionale; questo genocidio livestream lascerà cicatrici sulla nostra coscienza collettiva europea», aggiunge Zoe.

     

    “La rivoluzione non è finita”

    Come a Belfast, anche a Derry – Derry la chiamano i cattolici, ma è Londonderry per i protestanti – le pareti delle case sono monumenti contro l’oblio. Le villette a schiera di Bogside, il quartiere cattolico, sembrano stare in piedi solo per fare da cornice ai ritratti degli uomini che hanno dato la vita per i diritti civili degli irlandesi, gli “hunger strikers”, prigionieri politici che si lasciarono morire di fame in cella insieme a Bobby Sands. Questo colpisce: quei morti, sorridono tutti. Lo fanno meno i vivi per strada, se gli chiedi se quella storia è finita. Nell’isola dove abita – come ha scritto Heinrich Böll nel 1957 nel suo “Diario d’Irlanda” – «l’unico popolo d’Europa che non ha intrapreso guerre di conquista», molti chiamano quella lotta la “unfinished revolution”, una rivoluzione non ancora terminata, perché «gli inglesi sono ancora qui». 

    Su un muro si legge: “Morte agli informatori”. Su un altro si onorano quelli che scelgono la strada del passamontagna e del kalashnikov. Non ci dice come si chiama l’uomo che nel locale dalla saracinesca abbassata ti chiede di spegnere il cellulare. Perennemente sotto controllo delle forze dell’ordine, esce ed entra di galera perché ogni volta, sulla soglia del carcere e quella dell’età adulta, non ha scelto come gli altri ex ribelli di deporre le armi. Come molti qui, è un “lifer”, uno di quelli che può tornare in prigione anche se non commette alcun crimine, in base all’atto di prevenzione del terrorismo adottato da Londra negli anni ’70.

    “Lifer” è pure l’alto e segaligno che allarga sorrisi luminosi come i tramonti del Donegal nell’associazione per il recupero dei veterani di quella rivoluzione. Don Browne è un ex soldato della Provisional Ira (nata negli anni ’60 dalle ceneri dell’Ira, che si è spaccata nei decenni successivi in decine di formazioni diverse). “In retrospettiva” è il titolo della sua biografia trafitta dall’abbandono e dalla fame in orfanotrofio, da cui scappa per unirsi alla rivoluzione armata a 14 anni.

    Dopo dieci anni di molotov, barricate e agguati, è stato rinchiuso per 15 anni nella prigione-inferno del Crumlin, il carcere di massima sicurezza di Belfast dove rimase anche Sands prima di essere internato al Maze. Oggi al Crumlin il passato è diventato un’attrazione costosa per turisti: le celle sono diventate un museo di ologrammi digitali, maschere di cera del boia e corde per le impiccagioni. Da un tunnel sotterraneo del carcere si arrivava al tribunale di fronte, struttura imponente oggi abitata solo dal vento che spacca i vetri. L’edificio diventerà un albergo di lusso mentre nei dintorni ogni giorno appaiono nuovi murales che parlano di una nuova emergenza: quella abitativa, generata da precariato, impoverimento e tagli al welfare, che colpisce i giovani, sia cattolici che protestanti. Sono soprattutto i “Ceasefire Babies”, i bambini del cessate il fuoco a finire per strada, al gelo.

    «Per aiutare i miei 4 figli a capire che nel tentativo di rendere il mondo un posto migliore, ho commesso degli errori», spiega la dedica della biografia di Don, che a volte si ammanetta, nervoso, il polso di una mano con le dita dell’altra. Guarda in basso con gli occhi che luccicano. Deve reggere il peso inevitabile di anni di traumi e morte, ma è uno di quelli che del passato sa piangere e ridere allo stesso tempo. I disegni non sono solo sulla pelle della città, i muri, ma pure su quella dei suoi abitanti. Su entrambi i palmi azzurrini il vecchio guerrigliero ha i tatuaggi di due fenici, gli uccelli che rinascono dalle ceneri: si è liberato della guerra, proprio come ha fatto la sua terra, che si riunirà – ne è convinto, come molti – con una nuova battaglia, solo politica e negoziale. E di riunificazione sull’isola si parla sempre più spesso da quando lo Sinn Fein, ex braccio politico dell’Ira, è diventato il primo partito dell’Irlanda del Nord.

     

    La memoria sempre viva

    Se l’Irlanda è il Paese più filo-palestinese d’Europa (qualcuno si è azzardato a scrivere del mondo) è «per la nostra storia, certamente», dice a TPI il professore di storia irlandese Micheal Pierse della Queen’s University, Belfast. Per la memoria viva di un passato che lo è altrettanto. Ad intensificare il sentimento, «l’interconnessione delle esperienze di oppressione coloniale, che lega luoghi distanti tra loro, come Irlanda, Palestina, India, Kenya». «Siamo consapevoli di come un vincitore sia capace di propaganda, di distorcere la verità o nascondere prove delle violazioni dei diritti umani. Il nostro Paese è ancora diviso», spiega Pierse. «La Gran Bretagna rivendica ancora giurisdizione su sei contee del nord e l’eredità del conflitto terminato nel 1998 è ancora presente. Un potente Stato imperiale è capace di convincere che il mondo è nero e bianco, nascondere collusioni con squadroni della morte paramilitari, il suo ruolo negli attentati e massacri, come in quello del Bloody Sunday».

    A due passi dall’associazione degli ex veterani c’è Free Derry, il museo che ha raccolto le reliquie di quella domenica di sangue e i resti delle vittime le cui vite sono state spezzate nel gennaio del 1972. Quelle dei loro parenti, da allora, sono rimaste mutilate, smembrate, carbonizzate come le ceneri di quel giorno. Proiettili, molotov, striscioni stanno sotto le teche nelle sale dove i bambini delle scuole dei dintorni, che fanno lezione in gaelico, arrivano ad imparare la storia dei nonni e dei “Troubles”, letteralmente “i Guai”, i disordini iniziati negli anni ’60 per il conflitto nord-irlandese. Stanno a bocca aperta e testa in su quando vedono i filmati della strage dei repubblicani colpiti a morte dalla polizia che sosteneva i protestanti fedeli alla Corona di Londra. Nulla è andato perduto: sono celate dai vetri bende col sangue secco, fotografie e macchine fotografiche, documenti e giacche bucate dai proiettili di quelli che Dublino considera suoi martiri. Una apparteneva al 17enne Michael Kelly e all’uscita, uno dei ragazzi che appare nelle immagini d’epoca, ti fissa in carne e ossa, ma ha mezzo secolo in più e i capelli bianchi. Da quando a 23 anni prese in braccio il cadavere di suo fratello, ammazzato dalle pallottole inglesi, si è presentato al mondo sempre con la stessa frase: «Mi chiamo John Kelly, sono il fratello di Michael Kelly». Non ogni fuoco diventa brace a Derry. Il nome del soldier F., il soldato membro del corpo di paracadutisti britannici accusati di multiple stragi contro i civili irlandesi, ora sotto processo per l’assassinio di Micheal, John non lo pronuncia: lo scrive su un foglio che porge a chi voglia cercarlo e leggere tutta la lunga, lunghissima storia iniziata oltre mezzo secolo fa. John, per avere giustizia, non si è mai arreso. E quando, ogni volta che finisce sotto i riflettori in tv, gli chiedono se può perdonare il soldato F., risponde sempre allo stesso modo: «Non posso».

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