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    Reportage TPI – L’inferno dietro gli aborti clandestini in Liberia

    Nowaii ha 58 anni e ha fondato la Rural Women Rights Structure (Rwrs). Insieme a Hannah lotta per i diritti delle donne in Liberia. Credit: Graziana Solano / TPI

    La figlia di Nowaii è morta a 15 anni. Aveva deciso di abortire da sola. Hannah invece è sopravvissuta e oggi lotta per i diritti delle donne. Qui l’interruzione di gravidanza è legale solo per incesto o stupro. Ma chi se lo può permettere va in clinica. Chi no, rischia la vita

    Di Graziana Solano
    Pubblicato il 28 Giu. 2024 alle 14:43 Aggiornato il 12 Lug. 2024 alle 18:01

    «Se vuoi comprare uno stelo di manioca devi portarci un pollo o un sacchetto di riso, così mi era stato detto, perché all’epoca era così che si faceva. Avevo venticinque anni, non volevo quel bambino, così ho portato loro il pollo e in cambio ho avuto lo stelo. L’ho messo dentro, poi l’ho spinto su, forte, e l’ho tenuto lì tutto il giorno. Sono quasi morta dissanguata ma alla fine ho avuto il mio aborto. Erano due gemelli».

    Ѐ da poco iniziata la stagione del mango, in Liberia, è aprile e il cielo non ha una smagliatura. A Palala, un piccolo villaggio rurale nella contea di Bong, nell’area centro-settentrionale del Paese, Nowaii Kaiser, 58 anni, siede sotto l’ombra di un albero mentre la luce delle cinque del pomeriggio le si poggia sulle guance come una patina di oro. Lei, all’aborto clandestino, è sopravvissuta. Quando più tardi però è capitato a sua figlia, non si è fatto in tempo.

    In Liberia gli aborti clandestini sono un’epidemia silente ma costante, specialmente tra le più giovani. «Con la mia ong andiamo nelle scuole, nei villaggi. Parliamo con le ragazze. Le vogliamo consapevoli, informate», racconta Kaiser. «Ma saranno donne libere solo quando l’accesso all’aborto sicuro, nel mio Paese, sarà un diritto di tutte». Con lo scorso governo Weah, il disegno di legge per ampliare il diritto all’aborto era rimasto bloccato in Senato, «ma almeno ci eravamo arrivati», dice. «Adesso con Boakai dobbiamo ricominciare tutto daccapo».

    Un futuro più luminoso
    Quando sua figlia è morta aveva quindici anni, quasi sedici. «Non sapevo fosse incinta. Ce lo ha tenuto nascosto per paura. Per vergogna», racconta Kaiser. In Liberia, rimanere incinta prima del matrimonio per una ragazza significa solo una cosa: renderlo segreto e fare di tutto per liberarsi della gravidanza il prima possibile, pena l’esclusione dalla famiglia e dalla società. «Qui lo stigma è molto forte, ma se l’avessi saputo l’avrei aiutata. Quando l’abbiamo portata in ospedale non c’era più niente da fare». La “rpg”, un composto chimico spesso mortale, le aveva lacerato tutto. Per abortire, basta spingerlo su per il canale vaginale come una piccola noce. Infine, si spera di non sanguinare fino a perdere anche la propria stessa vita.

    «Tutti noi conosciamo qualcuno che giace sottoterra», si legge per la prima volta nel 2011 tra le pagine di “And still peace did not come: a memoir of reconciliation” della giornalista liberiana Agnes Kamara-Umunna. Otto anni prima la Liberia aveva finito di combattere la sua seconda guerra civile, ma non di contare i suoi morti. «Ho visto coi miei occhi quello che accadeva alle donne durante la guerra. Ho visto cosa succedeva alle donne che volevano separarsi dai loro mariti. Allora ho pensato alla mia defunta madre, e mi sono detta che dovevo alzare la voce per i diritti di tutte». Kaiser guarda dritto davanti a sé, fa una pausa, poi i suoi occhi si annacquano all’improvviso. «Ho insegnato Studi sociali alle elementari per tanti anni, ma l’aula non mi bastava. Devo fare di più, mi dicevo, incontrare altre donne che come me vogliono un futuro più luminoso. Se c’è qualcuno che parla per noi, racconta la verità? Mi chiedevo. Allora ho dato le dimissioni e ho lasciato la scuola». Nel 2008 Kaiser fonda così Rural Women Rights Structure (Rwrs), un punto di riferimento per le donne delle zone rurali della contea di Bong e ora della vicina Nimba, un’altra delle quindici contee del Paese in cui la sua ong si è da poco allargata.

    La strada che dalla capitale Monrovia porta a Gbarnga, capoluogo di Bong, è uno dei rari tratti in cui la terra rossa della Liberia è stata soppiantata da una lingua d’asfalto, in questo caso lunga 198 chilometri. Ai margini della carreggiata si erge fitto il paesaggio sempre verde delle palme da olio, degli alberi di papaya, di gomma, dei kapok; poi d’improvviso il via vai delle donne dei mercati di strada, di quelle che, tra auto e moto-taxi, si muovono coi figli piccoli, notte e giorno, vendendo acqua, chips di platano e pannocchie di mais, per pochi dollari al mese. Uno spazio di vita che dalla fine della guerra è rimasto immobile al cambiamento ma in cui si sopravvive solo se in continuo movimento.

    A circa venti minuti da Gbarnga, si stende Palala, il piccolo villaggio rurale dove Kaiser è nata, cresciuta e dove infine ha fondato la sua ong. «Siamo una ventina, lavoriamo con i gruppi femminili per l’emancipazione economica delle donne, per la loro partecipazione politica, per sensibilizzare sulla violenza di genere, e anche gli uomini sono coinvolti. Se vogliono liberare le loro figlie, devono iniziare pensando libere le proprie mogli», spiega Kaiser. Nelle venticinque scuole in cui lavorano, le operatrici di Rwrs incontrano insegnanti, ragazze e ragazzi, parlando di salute sessuale, riproduttiva e prevenzione, in un paese in cui tutto questo è quasi del tutto assente. «I giovani hanno rapporti sessuali non protetti costanti e il più delle volte non sanno nemmeno a cosa vanno incontro. Si trovano davanti a una gravidanza e se ne sbarazzano nel primo modo possibile. Ci sono bambine di otto o dodici anni che sperimentano abusi sessuali nelle stesse mura domestiche, ma sono cose che restano taciute».

    In Liberia, secondo la legge in vigore approvata nel 1976, l’aborto è un crimine punibile fino a cinque anni di carcere e consentito solo in caso di stupro, incesto, anomalie potenzialmente mortali per il feto o per la vita e la salute psico-fisica della madre.
    Lo scorso anno, sotto il governo Weah, la modifica della sezione sui diritti della salute riproduttiva e sessuale delle donne del nuovo disegno di legge sulla sanità pubblica era arrivata in Senato dove però era rimasta bloccata. La sua approvazione avrebbe portato, tra le varie cose, al totale ampliamento del diritto all’aborto eliminando le restrizioni vigenti.

    Secondo fonti locali, la ministra della Salute del nuovo governo Boakai, Louise Kpoto, potrebbe dare una spinta più liberale al Paese, anche incoraggiata da influenze internazionali che vorrebbero la Liberia al pari con le recenti linee guida dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) in termini di diritti della salute sessuale e riproduttiva delle donne. «Ho grandi speranze nel nuovo governo», dice Kaiser. «Ѐ un passo che deve essere fatto, non c’è più tempo».

    La legge dell’impunità
    Hannah Kerkulah è una ragazza di 25 anni dagli occhi profondi e loquaci. Come Kaiser, è di Palala, e a Kaiser deve tutto, racconta. «A quattordici anni ho abortito usando uno stelo di manioca e sono quasi morta, sì, ho avuto paura, ho perso tanto sangue e poi ho sentito freddo». Le parole di Hannah si inseguono, leste, dentro un timbro di voce a tratti sottile, a tratti tagliente. «Poi ho conosciuto Kaiser e mi sono unita alla sua organizzazione». Da quel momento Hannah si è ripromessa di girare per le scuole e incontrare le sue coetanee per aiutarle a parlare. E così ha fatto.

    «Tutte le mie amiche hanno avuto almeno un aborto clandestino. C’è chi ha ingerito vetro tritato, chi come me lo ha fatto con uno stelo di manioca», racconta, «e sì, c’è anche chi ha usato la rpg», ammette, sussurrando. La parola “rpg”, omonima dell’arma lanciagranate, la stessa che durante le due guerre civili liberiane ha provocato migliaia di morti, per i locali è una parola da dire a voce bassa, spesso a volto chino. E il riferimento all’arma sovietica diventa un chiaro dipinto di ciò che succede una volta che il composto abortivo si inserisce nel canale vaginale. «C’è chi sopravvive ma non può più avere figli, e chi muore», spiega Hannah. «Ma procurarsi la rpg costa molto meno che andare in una clinica».

    Sebbene l’attuale legge consenta l’aborto solo in casi come incesto o stupro, ciò che accade nella vita quotidiana del Paese infatti è tutt’altra storia. «Sì, è vero, in Liberia ci sono cliniche che praticano aborti sicuri illegalmente», confessa Kaiser con tono amaro. «L’unica cosa che gli importa è che hai i soldi per farlo, quindi solo le donne che possono permetterselo hanno accesso all’aborto sicuro, e sono poche. Nelle zone rurali nessuna». E la Liberia è un Paese perlopiù rurale. Il più delle volte, chi vuole abortire, non può permettersi tremila dollari liberiani (circa 15 dollari statunitensi) per pagare una clinica per farlo in modo sicuro perché se li ha, li usa per sfamarsi, considerato che il salario medio annuo del paese nel 2022 secondo Macrotrends si aggirava intorno ai 130mila dollari liberiani (circa 680 dollari statunitensi). Allora si chiede consiglio a un’amica che l’ha già fatto e si abortisce da sole. «Certo che il governo lo sa, lo sanno tutti, ma si finge di non vedere», spiega Kaiser.

    Il progetto di Kaiser fa parte di Amplifying Rights Network, una coalizione locale di undici ong che lavorano nell’ambito dei diritti sessuali e riproduttivi delle donne liberiane. La coalizione è finanziata dalla Svezia, Paese da cui l’ong di Kaiser riceve i fondi e senza i quali oggi non esisterebbe. Secondo fonti della stampa locale infatti, oggi in Liberia, senza le spinte e le campagne di sensibilizzazione promosse da partner internazionali come quello svedese non si discuterebbe né di aborto sicuro né di prevenzione o educazione sessuale.

    Negli anni, la comunità locale ha imparato a conoscere il lavoro di Rwrs, racconta Kaiser, «vengono qui per informarsi e quando possiamo le aiutiamo dando loro contraccettivi e pillole abortive sicure». I fondi arrivano ma non sono abbastanza, ammette. Allora insieme ai prodotti della sua terra si vede costretta, racconta, a vendere anche dei prodotti farmaceutici che sarebbero destinati alla donazione. Sa che è illegale ma il ricavato la aiuta a pagare le operatrici, sostiene. «Li vendo a metà prezzo rispetto alle farmacie e se una ragazza non può permetterselo, glieli do gratis. Io voglio essere d’aiuto, ma posso aiutare solo se riesco a tenere in piedi il progetto».

    La vendita di farmaci donati è un fenomeno cronico in Liberia, un Paese che registra un tasso di corruzione tra i più alti al mondo. A fine aprile, Jim Wright, direttore di Usaid (l’agenzia Usa per lo sviluppo internazionale) Mission Liberia ha dichiarato che quasi il 90 per cento delle farmacie liberiane rivende medicine donate da partner internazionali come Stati Uniti e Unione europea, quando invece dovrebbero essere distribuite gratuitamente. Dopo che alcune farmacie locali hanno minacciato di fare causa all’agenzia statunitense, in pochi giorni sul tema è calato il totale silenzio, ma secondo fonti del posto sta accadendo affinché Usaid possa andare in fondo alla questione, ma senza pressioni locali.

    Con i suoi oltre 460 mila abitanti, Bong è la terza contea più popolosa di tutta la Liberia, ma anche l’area in cui raggiungere un ospedale in caso di emergenza è spesso impossibile. Victor Toe (nome di fantasia), un operatore sanitario locale, racconta come «i fondi e i materiali che arrivano nel Paese non vengono usati come dovrebbero. Non mi stupisce la dichiarazione di Usaid, certe cose le vedo ogni giorno», racconta. Ѐ un problema endemico, dice, sia la corruzione che la totale impunità che ne deriva, e nelle zone rurali le conseguenze diventano drammatiche. «Ci sono solo due ostetrici in tutta la contea, due sole ambulanze che spesso non hanno carburante per essere usate, carenza di farmaci, contraccettivi e materiale sanitario per complicazioni da post-aborto». Succede anche al Phebe Hospital, l’ospedale di riferimento della regione, racconta Toe, «arrivano i farmaci, e infermieri, medici, li rubano e li rivendono». Delle volte sono spariti persino interi camion pieni di materiale medico-sanitario. «A volte i pazienti potrebbero essere salvati se le medicine rimanessero qui, ma finiscono per dover pagare, e non possono». Tra loro anche le ragazze che arrivano all’ospedale in fin di vita. «Anche la pillola del giorno dopo non è quasi mai disponibile, potrebbero averla gratis ma finisce per essere venduta altrove. Fa molto male, investi il tuo tempo e non puoi dare alla gente l’aiuto che merita».

    Il Phebe Hospital è una delle strutture che Siah Sam, coordinatrice della Community Engagement & Research per Community Health Education & Social Services in Liberia (Chess) monitora insieme a un’altra ventina di cliniche e ospedali locali, assicurandosi che i farmaci donati che arrivano restino dove sono. Dalle sue osservazioni al Phebe Hospital tutto procede per il meglio. Ma da quanto raccontato da Toe, il sistema di monitoraggio di Chess, finanziato dalla stessa Usaid, sembra fare acqua da tutte le parti.

    «Ma anche noi abbiamo i nostri problemi. La mia paga di febbraio l’ho ricevuta a inizio aprile. Come sfamiamo le nostre famiglie? Molti si vedono costretti a fare cose del genere», racconta Toe, rabbuiandosi. La testimonianza di Toe e Kaiser sulla vendita di farmaci donati traccia, in un Paese che si trascina sperando di arrivare a fine giornata, una linea di demarcazione tra chi agisce nell’illecito per mettersi in salvo, e chi, ai piani alti, ruba per rubare. La ministra della Salute si è detta impegnata nel voler mettere fine all’impunità perseguendo penalmente chiunque sia coinvolto, e sebbene lo scetticismo che questo accada è diffuso, tra i liberiani la speranza resta viva.

    Le due verità
    Secondo il primo studio nazionale sull’aborto in Liberia, mai pubblicato per intero, tra settembre 2021 e marzo 2022 sarebbero stati oltre 38mila gli aborti volontari, numero che si riferirebbe solo ai casi registrati nelle strutture sanitarie. «Nessuno sa quante ne muoiono in casa dopo un aborto clandestino, ma sono tante», spiega Toe. «Raggiungere un ospedale spesso significa camminare per tre o quattro ore, allora si resta a casa e ci si arrangia come si può». Come Hannah, che all’ospedale voleva andarci, ma non sapeva come. «Chi riesce ad arrivare qui arriva sempre in fin di vita, perché aspetta l’ultimo momento. La vergogna dello stigma fa più paura di morire».

    L’influenza dei leader cristiani, musulmani e di altre religioni tradizionali minoritarie, insieme alle diverse spinte conservatrici di gruppi etnici locali, è forte, in Liberia. In occasione del dibattito in Senato sull’ampliamento del diritto dell’aborto, l’anno scorso l’arcivescovo di Monrovia aveva preso di mira la Svezia e altri Stati, accusandoli di spingere i liberiani verso il peccato e di imporre al Paese i valori occidentali.

    Kaiser racconta come soprattutto nelle zone rurali, dove l’analfabetismo è più diffuso che altrove, la gente non abbia nemmeno la radio per informarsi, figurarsi avere accesso all’educazione sessuale, assente trasversalmente in tutto il Paese. «Allora le credenze religiose diventano l’unica verità. Ma io credo che abbiamo diritto di conoscere le due verità: quella dei capi religiosi e quella dell’educazione e della libertà di decidere sul proprio corpo. Poi starà a noi scegliere. Le donne liberiane devono avere il diritto di scegliere per sé stesse, e so che un giorno lo avranno».

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