La notte di Ramallah è piena di musica. Al Garage, locale fulcro della vita notturna, giovani originari della città e stranieri che qui lavorano nelle ong mescolano le loro voci mentre, in sottofondo, si alternano canzoni pop in arabo e inglese. Ma non è una notte come tante: a pochi chilometri, oltre un muro di divisione, Benjamin Netanyahu sta dando inizio a un nuovo mandato, il suo sesto da primo ministro, alla guida del governo considerato il più conservatore nella storia di Israele. Contemporaneamente nei territori palestinesi occupati, di cui Ramallah è capitale de facto, si teme un peggioramento che in molti faticano anche solo a immaginare, ma che sanno essere purtroppo possibile sotto la spinta di una destra israeliana ultraconservatrice e violenta.
«Sono anni che ci diciamo, tra noi e noi, di goderci questa spensieratezza finché dura. Ma è una spensieratezza finta. Ci chiudiamo in una bolla che, di giorno in giorno, finisce il suo ossigeno», ci racconta un ventenne palestinese, avventore del bar, nato e cresciuto a Ramallah. Come tutti i palestinesi della Cisgiordania (detta anche West Bank), la zona che con Gerusalemme est è stata occupata militarmente dal 1967, anche lui ha osservato i territori progressivamente ridursi con lo sviluppo degli insediamenti israeliani e la vita quotidiana diventare sempre più complicata a causa del moltiplicarsi dei checkpoint e dei raid militari. Il 2022 è stato un anno con un bilancio durissimo per la West Bank palestinese: secondo i dati forniti dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari, solo in questa regione, sono stati almeno 146 i palestinesi uccisi dai militari israeliani e 4 dai coloni. Numeri che l’esercito israeliano giustifica affermando che si tratta di soggetti coinvolti in attività terroristiche ma che, qui a Ramallah, hanno le fattezze di un cugino, un compagno di scuola, un fratello.
I muri parlanti e le chiavi della memoria
Camminare per le strade della città significa sentirsi osservati da centinaia e centinaia di volti che compaiono sui muri: sono i volti dei ragazzi uccisi. Un necrologio in pietra e vernice spray va dalla città vecchia ai quartieri più recenti. Tra questi, due volti che si somigliano: sono quelli di Jawad e Thafer Rimawi, due fratelli di rispettivamente 22 e 21 anni, assassinati a fine novembre nel villaggio di Beit Rima, poco distante da Ramallah. Secondo i testimoni, Jawad sarebbe stato colpito per secondo, nel tentativo di soccorrere suo fratello agonizzante.
I muri sono diventati da anni uno strumento politico nei territori occupati, spazi dove artisti palestinesi o stranieri lasciano messaggi di resistenza, ricordano i loro familiari uccisi, attaccano manifesti o si limitano anche solo a scrivere “Fuck the Occupation” in colori sgargianti sul cemento. Seguendo questo corridoio di volti che ti accompagnano anche di notte, si incontrano figure ormai celebri, come quella di Shireen Abu Akleh, la giornalista palestinese dell’emittente Al Jazeera uccisa da un colpo di arma da fuoco durante un raid in un campo profughi di Jenin a maggio del 2022. Il suo volto è dipinto su di una pietra memoriale al centro di una strada che oggi a Ramallah porta il suo nome. Come in una metropoli underground i muri parlano e le voci si moltiplicano di luogo in luogo, oltre le barriere di divisione. Così, immagini che ritraggono Shireen sono ormai ovunque: in città della Cisgiordania, come Ramallah e Betlemme, a Gaza, ma anche a Nazareth, in Israele.
Una resistenza figurativa che gli esponenti della politica conservatrice israeliana temono abbia il potere della capillarità e che ormai ostacolano apertamente: tra i primi provvedimenti del neo-ministro della Difesa Nazionale, non a caso, il divieto di mostrare in pubblico la bandiera della Palestina. «Loro ci vietano la bandiera, noi disegniamo angurie», ci aveva detto il ragazzo del Garage, con allusione alla tendenza di alcuni artisti palestinesi di sostituire, quando vietato, la bandiera palestinese con l’immagine di un’anguria, che presenta gli stessi colori.
Percorrendo le strade di Ramallah si arriva alla casa di famiglia di Jaghab Zahran, un edificio di 250 anni che il proprietario ha trasformato in un museo di storia palestinese. Tra le stanze, fotografie della città risalenti al XIX secolo e dipinti di artisti che, a seguito della diaspora palestinese, sono stati costretti a lasciare la propria casa. Tra gli elementi ricorrenti nei dipinti ci sono le chiavi: molti profughi palestinesi esiliati nel 1948 e nel 1967 hanno portato con sé le chiavi della propria dimora affidandole ai figli, poi ai nipoti, nella speranza che un giorno i loro discendenti possano tornare a casa. Jaghab accoglie ogni visitatore con una tazza di caffè e un briciolo di amarezza, raccontando la storia della Palestina prima della nascita di Israele.
«Stiamo perdendo la memoria», conclude sempre, quando il caffè tra le mani è ormai freddo dopo ore di racconti. La sua accusa è anche alle istituzioni palestinesi incapaci, a suo dire, di definire una linea politica efficace contro l’occupazione. «Combatto da 17 anni contro le istituzioni della città di Ramallah che vogliono privarmi di alcuni terreni della mia famiglia per costruirci strade! – continua – La terra, gli ulivi, gli alberi di fico… Un tempo tutto questo era sacro per i palestinesi. Oggi, invece, proprio come per chi ci occupa, la terra non è più memoria».
Un’amarezza, quella di Jaghab, che diventa ancor più vivida quando si esce dai confini di quella “bolla” che è Ramallah e ci si scontra con gli ostacoli dell’occupazione militare.
Un lungo e quotidiano rito di passaggio
Andar via dalla città, infatti, dà un piccolo assaggio della vita quotidiana dei palestinesi che vivono in questa zona e della difficoltà che essi hanno nello spostarsi da una città all’altra. Mentre siamo sul bus diretto a Gerusalemme, incontriamo Muna, una ragazza di 24 anni che, dopo tre anni a Firenze, è tornata a Ramallah per completare i suoi studi.
«Passare attraverso i checkpoint – racconta – può farti perdere qualche minuto o addirittura ore. A volte si resta in stallo qui senza un vero motivo, senza spiegazioni, bloccati tra un tornello e l’altro e sotto lo sguardo minaccioso dei militari. E pensare che Ramallah e Gerusalemme distano meno di 20 chilometri!». Arrivati al checkpoint di Qalandia, si scende dal bus e si passa attraverso una serie di controlli operati dai militari israeliani, camminando tra tornelli in metallo che si bloccano improvvisamente, smistando la folla in gruppi, prima del controllo delle borse e dei documenti. Un lungo rito che, come ci raccontano, si svolge sempre uguale sia col gelo di gennaio che col caldo asfissiante di agosto. «Non bisogna fare movimenti bruschi – ci spiega Muna – o andare incontro alle guardie in modo troppo diretto e veloce. I casi di persone a cui è stato sparato perché scambiate per aggressori sono tanti. Ovviamente non tutti possono andare da Ramallah a Gerusalemme: occorre un permesso speciale concesso dalle autorità israeliane. Ci sono ragazzi della mia età che non sono mai riusciti a visitare Gerusalemme: ci fanno dimenticare che questa terra era nostra».
Ma dimenticarsi della terra, per chi vive in Cisgiordania, spesso è una necessità dettata dalla violenza. I terreni vengono espropriati e nuove colonie israeliane, in violazione del diritto internazionale, vengono create. Attualmente gli insediamenti sono più di 140, per un totale di oltre 20mila unità abitative, di fatto illegali, tra Cisgiordania e Gerusalemme est, secondo i dati del rapporto dell’ufficio di rappresentanza Ue nella West Bank e nella striscia di Gaza, pubblicato nel mese di luglio 2022. Anche se Israele non ha mai formalmente annesso la Cisgiordania, i territori palestinesi restano delle enclavi divise, frammentate, dove gli spostamenti restano estremamente limitati e in cui l’Autorità Palestinese, lì dove ha un controllo, lo esercita solo formalmente. Una situazione che ha contribuito a far sì che alcune ong e associazioni, tra cui l’israeliana B’Tselem e Amnesty International, iniziassero a parlare di apartheid.
Guerra sotterranea
Alla porta di Damasco, uno degli ingressi alla città vecchia di Gerusalemme, ci aspetta Adnan. Con i suoi più di 160mila follower su Instagram, è ormai un punto di riferimento per chiunque voglia essere aggiornato sulla vita dei palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Si definisce uno storyteller digitale e fa parte di quella generazione di palestinesi che utilizzano i social media per diffondere immagini e video di soprusi da parte dei militari israeliani. Un nuovo modo di raccontare i fatti, diffusosi negli ultimi anni anche grazie a Muna e Mohammed El-Kurd, i due fratelli che hanno raccontato a milioni di follower lo sfratto di intere famiglie palestinesi da parte di coloni israeliani dal loro quartiere di Sheikh Jarrah e da altri quartieri storicamente palestinesi di Gerusalemme est.
Quando lo incontriamo, Adnan ci conduce a conoscere alcuni suoi amici che sono stati appena perquisiti dai militari per il solo fatto di essere palestinesi: ormai una prassi, come ci raccontano, che a volte può innescare scontri e violenze. Ci porta in giro per la città vecchia, tra i suoi vicoli, e ci mostra alcuni edifici ridotti ormai in macerie. «Da un po’ di tempo – racconta – le autorità israeliane non si limitano solo a sfrattare i residenti palestinesi di alcuni quartieri di Gerusalemme est, come Sheikh Jarrah o Silwan, ma si concentrano anche sulla parte più antica e storica della città. Dicono di voler trovare resti archeologici, e scavano sotto le case dei palestinesi. Cosa che ne provoca spesso il crollo».
Nel camminare con Adnan tra le luci gialle della città vecchia, si apre la porta del bar di Emad Abu Khadija mentre sta rassicurando alcuni suoi conoscenti: «Mi hanno scarcerato, tranquilli!». Capelli grigi e un sorriso mai spento, Emad è proprietario di uno dei locali più ambiti di tutta Gerusalemme. Qualche anno fa, infatti, durante alcuni lavori di ristrutturazione, ha scoperto che, attraverso una botola nel pavimento, si accede ad alcuni cunicoli scavati ai tempi delle crociate, a loro volta costruiti su tunnel che risalirebbero all’epoca bizantina. Percorsi sotterranei vecchi centinaia, forse migliaia di anni che portano ai luoghi più importanti della città tra cui la porta di Damasco e la Spianata delle Moschee. «Da qui si entra nella storia», ci racconta mentre mostra il suo ingresso privilegiato alla Gerusalemme sotterranea. Il governo israeliano gli ha offerto milioni per acquistare il suo locale, ma dopo il suo rifiuto sono iniziati i guai. Emad racconta di minacce, soprusi e persino un ordine di arresto per suo padre, notificatogli tre giorni dopo la sua morte.
«Mi hanno anche revocato la licenza per cucinare – sottolinea, mantenendo un tono quasi divertito – così cucino a casa e poi porto qui le pietanze già pronte per poterle vendere. Qualche settimana fa, un israeliano voleva costringermi a rimuovere un frigorifero che ho sempre tenuto fuori dal mio locale. Al mio rifiuto, sono stato arrestato e ho passato una settimana in carcere. Mi tolgano pure il frigorifero, non venderò mai!».
Contendersi anche il cielo
A fine serata, Adnan ci porta sui tetti di alcune case non lontane dal quartiere armeno, da cui si scorge la Cupola della Roccia illuminata, uno degli edifici iconici di Gerusalemme, situata in quella che, per i musulmani, è la Spianata delle Moschee e, per gli ebrei, il Monte del Tempio. Un luogo che, anche dopo la conquista di Gerusalemme est da parte di Israele nel 1967, ha mantenuto uno status particolare, anche se molto precario, e formalmente resta sotto la custodia di un ente giordano, pur essendone l’accesso presidiato dai militari israeliani. Alcuni membri di gruppi di estrema destra, come l’organizzazione Lehava, hanno minacciato di appropriarsi di quel luogo, cambiandone lo status, abbattendo la Cupola della Roccia e la moschea di Al Aqsa, per restituire una sacralità esclusivamente ebraica. Minacce che partiti più moderati ridimensionano o contrastano. Tuttavia, soprattutto negli ultimi anni, la Spianata delle Moschee è diventata teatro di incursioni da parte di estremisti e coloni con conseguenti scontri e raid da parte dell’esercito israeliano anche durante il mese sacro del Ramadan.
Dopo qualche giorno dall’incontro con Adnan, il neo-ministro israeliano per la Sicurezza Nazionale, Itamar Ben Gvir, leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit (molto vicino a Lehava) si è recato sulla Spianata delle Moschee, dichiarando che: «Il Monte del Tempio è il luogo più importante per il popolo di Israele» e manifestando, secondo alcuni, una indiretta volontà di modificarne lo status. Un gesto analogo, ossia la visita allo stesso luogo da parte di Ariel Sharon, allora leader del partito nazionalista Likud, fu uno degli eventi che nel 2000 portarono alla seconda Intifada. Dopo il clamore internazionale che ne è seguito, Netanyahu ha dichiarato infondate le allusioni a un cambiamento di status, ma non ha condannato l’incursione di un ministro israeliano in uno dei luoghi più contesi e “caldi” al mondo. Pochi giorni prima, le tensioni erano nate per un tweet del primo ministro in cui faceva riferimento alla West Bank come a territorio israeliano, nonché per l’uccisione nei primi tre giorni del 2023 di tre ragazzi palestinesi, uno al giorno. Dinamiche che si ripetono, ma di volta in volta un po’ più esplicite e frequenti che in passato.
«Purtroppo, ormai, fa poca differenza chi è al potere – ci aveva detto Adnan – Spesso quello che dicono in modo molto violento è già in atto da tempo. Sembra non cambiare nulla, eppure tutto peggiora sempre». Un’abitudine che diventa silenzio. Il nuovo governo di Netanyahu è ufficialmente iniziato.