Di Talat N’Yaaqoub non restano che macerie. Il villaggio arroccato sulle montagne dell’Atlante, ad appena una ventina di chilometri dall’epicentro, è stato raso al suolo dal terremoto che ha colpito il Marocco lo scorso 8 settembre. Insieme a centinaia di abitazioni, sono andati distrutti l’ospedale e la scuola. I superstiti adesso vivono nelle tende che sono state montate dalle autorità marocchine con l’aiuto di varie ong internazionali. Mentre gli adulti trasportano viveri e altri beni di prima necessità alle tende, i bambini giocano tra ciò che resta delle loro case.
«Ero seduto in salotto, i miei figli stavano guardando una partita di calcio in televisione e mia moglie dormiva. La scossa è stata talmente forte che abbiamo sentito il boato quando ormai le case erano crollate». Hassan ricorda così il momento in cui il terremoto ha colpito Talat N’Yaaqoub. «È stato come se la nostra casa fosse stata scagliata in avanti: ho afferrato i miei figli e mi sono precipitato fuori, mentre una parte del soffitto è crollata a pochi centimetri da dove eravamo. Il villaggio era distrutto, si sentivano urla provenire da ogni casa».
Nonostante il terremoto lo avesse lasciato con una gamba rotta, Hassan avrebbe passato le ore successive a cercare tra le macerie prima i superstiti, poi i cadaveri di parenti, amici e conoscenti. «La mia famiglia si è salvata, ma nel mio vicinato sono morte più di settanta persone. Abbiamo sempre avuto una vita faticosa, ma nei momenti di difficoltà ci siamo sempre aiutati, avevamo i nostri amici, i nostri parenti. Adesso sono tutti morti, non è rimasto nulla del nostro villaggio».
Con una magnitudo di 6,8, il terremoto dell’8 settembre ha distrutto interi villaggi, mietendo in totale quasi tremila vittime e lasciando oltre cinquemila persone ferite. A essere colpite sono state principalmente le zone montagnose della catena dell’Atlante, a qualche decina di chilometri a sud di Marrakech: si tratta di una tra le regioni più povere del Marocco, nella quale la maggior parte degli abitanti sopravvive grazie all’agricoltura di sussistenza e alla pastorizia, e una percentuale elevata della popolazione è analfabeta. La conformazione del territorio, con villaggi isolati raggiungibili tramite stradine di montagna, ha reso particolarmente difficile l’arrivo dei soccorsi: ormai, le strade bloccate dalle frane sono state aperte, i soccorsi sono arrivati in tutti i villaggi, e praticamente tutti i corpi delle vittime sono stati dissotterrati e sepolti. Nonostante le critiche iniziali, dopo alcune settimane dal terremoto c’è un apprezzamento verso la risposta delle autorità, della cittadinanza e del terzo settore. Con l’arrivo dell’inverno, la preoccupazione è quella di fornire un riparo ai superstiti, mentre si inizia a pensare a come gestire e finanziare la ricostruzione.
“Si morirà di freddo”
Gli inverni sulle montagne dell’Atlante sono particolarmente freddi e piovosi: molti villaggi colpiti dal terremoto si trovano oltre i mille metri di altitudine, e già in queste settimane le temperature stanno iniziando a scendere, particolarmente la notte. Al momento, i superstiti del terremoto sono quindi particolarmente preoccupati per l’arrivo dell’inverno. «Siamo stati sistemati in queste tende», ci dice Hassan, mostrandoci la grande tenda in cui vive insieme alla sua famiglia. «Ma qui il clima in inverno è molto rigido, queste tende non riparano quasi per niente, si morirà di freddo. Fino ad adesso ci sono tante persone che sono venute ad aiutarci, e questo ci dà forza; il problema arriverà quando queste persone andranno via».
La maggior parte delle persone incontrate è comunque fortemente contraria all’idea di spostarsi dalle loro case e dai loro villaggi e di trasferirsi in città o in posti meno freddi. Questo è il caso per molti degli abitanti di Tinzert, un piccolo villaggio di 300 abitanti, che si raggiunge viaggiando su piccole strade sterrate tra le montagne. Tinzert è stato completamente raso al suolo dal terremoto: tra le rovine delle case non resta che qualche mobile a ricordare che in questi posti abitavano delle famiglie.
A Tinzert la maggior parte degli abitanti ha una vita sedentaria, legata ai pascoli e alle coltivazioni, e non vuole allontanarsi dalla propria casa. Questo forte attaccamento alla terra e alle tradizioni si percepisce dalle parole di tutti gli abitanti del villaggio, anche i più giovani. «Non vogliamo andarcene, siamo cresciuti qua, abbiamo sempre vissuto qua», ci spiega Hussein, giovane diciannovenne di Tinzert, che incontriamo tra le macerie. «Nessuno vuole lasciare il villaggio, i pastori hanno le loro terre e il loro bestiame qui». Anche Hussein però è estremamente preoccupato per l’inverno: «Non sappiamo come faremo a passare l’inverno, sarà molto dura: le tende che abbiamo non proteggono dal freddo. Quando arriveranno il freddo e la pioggia saremo in estrema difficoltà».
La questione dei soccorsi
A Tinzert il terremoto ha ucciso 22 persone. «Siamo stati noi a tirare fuori i morti, gli aiuti sono arrivati nel pomeriggio del giorno dopo, quando avevamo già seppellito le vittime», ci spiega Hakim, cugino ventenne di Hussein. In molti dei villaggi più isolati, all’indomani della catastrofe, la risposta delle autorità è stata oggetto di critiche per il fatto che, con molte strade di montagna bloccate o franate, i soccorsi hanno impiegato fino a qualche giorno per arrivare. «I soccorsi sono riusciti a entrare nel nostro villaggio solo tre giorni dopo», ci racconta al telefono Abdel dalla località di Igherem, vicino ad Aghbar.
Superate le critiche iniziali seguite alla risposta tardiva del governo nei giorni immediatamente successivi al sisma, adesso le persone che incontriamo sembrerebbero apprezzare la risposta delle autorità, sia per quanto riguarda le operazioni di soccorso e ricerca che per quanto riguarda la distribuzione di beni di prima necessità e l’installazione di alloggi temporanei per i superstiti. Anche i volontari sul territorio ritengono che il governo stia agendo in modo efficace. «Sono positivamente sorpreso dalla risposta delle autorità marocchine», dice Martin, un volontario della ong olandese Movement On The Ground che ha contribuito alla missione di ricerca e soccorso e all’allestimento del campo a Tinzert.
«Sono rimasto ancora più sorpreso dalla risposta della cittadinanza e dalla solidarietà della popolazione», continua l’attivista. La mobilitazione dei cittadini e della diaspora marocchina è stata notevole, con innumerevoli iniziative di raccolta e distribuzione di beni di prima necessità. «Ci si aspettava un contributo da parte della cittadinanza, ma siamo rimasti tutti stupiti da un’azione così massiccia», dice Mohamed Ed Derras, presidente dell’Istituto per la cooperazione e lo sviluppo di Alessandria, che è arrivato in Marocco dall’Italia con un camion di aiuti. «La nota negativa riguardo a questo intervento è stata la mancanza di coordinamento, c’è stato uno spreco di molti beni raccolti in eccesso». Un danno collaterale delle iniziative personali dei cittadini marocchini è stato anche quello di aumentare gli ingorghi sulle piccole strade di montagna che portano alle zone terremotate, rallentando in alcuni casi i soccorsi.
Ha fatto anche discutere la decisione del Marocco di accettare aiuti esteri per le attività di soccorso solo da un numero molto limitato di Paesi, ovvero Regno Unito, Spagna, Qatar ed Emirati Arabi Uniti. E’ un filtro che, in realtà, si applica solo agli aiuti di carattere istituzionale: anche nei villaggi più isolati si incontrano moltissime ong umanitarie, provenienti da tutto il mondo, il cui lavoro si sta rivelando efficace ed essenziale.
Orgoglio marocchino
Ufficialmente, la scelta delle autorità marocchine di accettare solo una quantità limitata di aiuti esteri è stata motivata dalle difficoltà logistiche che avrebbe comportato il coordinamento di varie squadre provenienti da diversi paesi in una zona montagnosa come quella colpita dal terremoto. Secondo una nota del ministero dell’Interno del regno, la mancanza di coordinamento sarebbe infatti potuta risultare controproducente. Tuttavia, in molti hanno visto una mossa diplomatica dietro alla scelta dei Paesi dai quali accettare aiuti. In particolare, ha causato polemiche il fatto che il Marocco non abbia accettato gli aiuti offerti dalla Francia, l’ex potenza coloniale con la quale il rapporto negli ultimi anni è diventato sempre più teso.
Mekki Zouaoui, professore di Economia all’Università Mohammed V a Rabat, è di questa opinione: «È evidente che c’è una motivazione diplomatica dietro al rifiuto dell’aiuto francese, ma sicuramente lo stato ha dimostrato di saper rispondere al sisma in modo efficace: il Marocco di oggi non è il Marocco di ieri, abbiamo dimostrato di non essere un paese povero che ha bisogno di carità».
Anche secondo Mohamed Ed Derras, dalla risposta al terremoto sta emergendo il forte senso di orgoglio del Marocco, e soprattutto il desiderio di affermare la propria sovranità e dimostrarsi capace di gestire l’emergenza. «Il Marocco vuole essere percepito come lo Stato trainante per l’Africa, un punto di riferimento per i Paesi in via di sviluppo: emerge un desiderio di rivincita, di dare un segnale, soprattutto ai Paesi europei, che il Marocco non è più un Paese del terzo mondo che ha bisogno di aiuto, ma che ce la può fare da solo».
L’incognita
Resta aperta la questione della ricostruzione, che si annuncia lunga e costosa. Il 14 settembre, il governo marocchino ha annunciato un piano che fornirà ad ogni famiglia colpita un riparo e aiuti finanziari. Il governo stanzierà oltre 12.700 euro per ogni famiglia la cui casa è stata completamente distrutta, oltre 7.300 euro per ogni famiglia la cui casa è stata parzialmente danneggiata, e oltre 2.700 euro per chiunque altro sia stato colpito dal terremoto.
«Adesso, è necessaria una buona organizzazione per far partire tutto», ci dice Amine Kabbaj, architetto di Marrakech. «Ma soprattutto non bisogna avere fretta: dobbiamo cercare di costruire abitazioni che si avvicinino il più possibile a ciò che esisteva prima, anche considerando che si tratta di villaggi dove le persone sono molto attaccate a una certa tradizione rurale: dobbiamo aiutare le persone a ricostruire e a far rivivere questi villaggi». Una sfida per la ricostruzione di questi villaggi nel rispetto della tradizione è quella dei materiali di costruzione: «Si tratta di abitazioni di montagna, costruite in pietra, sabbia e argilla, che erano diverse da una regione all’altra: non c’è una sola tecnica di costruzione».
Per Amine, una delle questioni più delicate sarà se ricostruire ogni villaggio nel suo sito precedente o se spostarlo, eventualmente agglomerando diversi centri abitati. «In alcuni villaggi sarà più facile [ricostruire nel sito esatto, ndr], in altri più difficile, perché bisogna rimuovere le macerie».
Inoltre, la scossa è stata talmente violenta da cambiare la conformazione geografica del territorio, in alcuni casi spostando addirittura i corsi d’acqua: alcuni villaggi che erano vicini a una fonte non lo sono più. La difficoltà del ricostruire i villaggi in un altro luogo non sarebbe però solo legata all’attaccamento della popolazione alle proprie terre e alla loro riluttanza a spostarsi: nella regione colpita dal terremoto, alcuni villaggi hanno una popolazione berbera, altri araba, il che significa che la fusione di diversi villaggi potrebbe rivelarsi particolarmente difficile.
Dal successo della ricostruzione dipenderà se queste regioni, già lasciate fuori dal processo di sviluppo del Paese, riusciranno a risollevarsi o sprofonderanno in una maggiore povertà. Non si può però trascurare l’impatto psicologico e sociale di una catastrofe che ha decimato villaggi e sterminato intere famiglie. Anche per questo, l’opinione di Hassan è che «avremo bisogno di cinquant’anni per rimetterci in sesto».
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