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    Noi studentesse di Chibok salve per miracolo quella notte in cui Boko Haram rapì le nostre amiche

    “Vogliamo rivedere le nostre compagne”. Parlano le ex alunne della scuola di Chibok, attaccata dai jihadisti in Nigeria tre anni fa. Il reportage di Daniele Bellocchio

    Di Daniele Bellocchio
    Pubblicato il 14 Apr. 2017 alle 13:10 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 21:45

    Marta, Mary, Glory e Grace hanno dai 17 ai 19 anni. Oggi studiano all’ateneo statunitense di Yola, nella parte orientale della Nigeria, e sognano un futuro da dottoresse e avvocate. Ma in loro è ancora vivo il ricordo della notte in cui sono scappate dai soldati islamisti e in cui hanno visto le loro amiche essere portate via tra le urla, sotto la minaccia dei kalashnikov.

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    Il rapimento dalla scuola di Chibok

    Era il 14 aprile 2014 quando un commando di jihadisti fece irruzione nella scuola nigeriana di Chibok rapendo 276 studentesse. Il mondo rimase shockato per l’accaduto e Michelle Obama lanciò la campagna #Bringbackourgirls. A oggi solo 21 studentesse sono state rilasciate: una è riuscita a scappare, ma delle altre ancora non si sa nulla.

    Fu la tragedia che portò alla ribalta delle cronache mondiali il nome di Boko Haram. E per capire l’entità dell’accaduto e il livello di brutalità raggiunto dalla branca africana del Califfato, occorre andare all’American University di Yola dove sono ospitate le alunne che quella notte riuscirono a nascondersi e fuggire dai ribelli guidati dal leader Abubakar Shekau. TPI ha incontrato alcune di quelle ragazze.

    Quando i ribelli sono entrati in città, dapprima hanno fatto scappare le forze governative, poi hanno fatto irruzione nel collegio.

    “All’inizio abbiamo sentito delle grida e visto questi uomini armati entrare”, racconta Marta facendosi portavoce del gruppo. “Dicevano di essere dei soldati venuti a difenderci dagli jihadisti ma alcuni avevano divise, altri no, alcuni il volto coperto con delle keffiah altri no. Poi hanno urlato Allah u Akbar e hanno iniziato a sparare in aria. Ed è a quel punto che abbiamo capito che si trattava di terroristi”.

    Marta racconta dei momenti di paura in cui si sono nascoste e poi sono scappate nella notte, correndo nel buio della savana nigeriana, assordate dai battiti del cuore e spinte da un’angoscia totalizzante.

    “Siamo fuggite e siamo riuscite a metterci in salvo, ma il pensiero ogni giorno va alle nostre compagne”, dice la studentessa. “Che le stanno facendo? Dove sono? Noi vogliamo rivederle”.

    Interrogate su cosa chiederebbero agli islamisti se avessero modo di fare loro una domanda, all’unisono rispondono: “Perchè! Gli chiederemmo perchè fanno tutto questo, perché se la prendono con gli innocenti e perché uccidono donne e bambini. Ecco questo vorremmo sapere”.

    “Noi siamo cristiane, e siamo disposte a perdonare chi ha fatto questo male a noi e alle nostre compagne, perché è questo quello che ci insegna Dio, il perdono”. aggiungono le giovani. “E inoltre, se vogliamo una Nigeria nuova lontana da violenza e terrorismo, allora noi per prime, che siamo state vittime della guerra, dobbiamo dimostrare di essere capaci di perdonare per dare vita a una nazione libera dalla morte”.

    Il conflitto in Nigeria

    Una “Nigeria nuova”, questo è il sogno sia delle ragazze sopravvissute alla furia degli jihadisti, ma anche di tutta la popolazione del nord del paese, costretta a convivere con le conseguenze drammatiche provocate dal conflitto. I dati parlano chiaro, la guerra dal 2009 ad oggi ha causato oltre 2 milioni di profughi e 500mila sfollati: i morti sono più di 20mila, i danni sono stati registrati in 9 miliardi di dollari e nel solo distretto di Maiduguri le persone senza casa, accampate in tendopoli e alloggi provvisori, superano il milione.

    Negli stati del Borno, di Yobe e di Adamawa gli abitanti sono dovuti fuggire abbandonando i propri terreni. I campi sono incolti, il 40 per cento delle strutture sanitarie nello stato del Borno è distrutto ed è così che, in assenza di raccolti e di aiuti medici, è divampata una crisi alimentare senza precedenti.

    Per rendersi conto, al di là dei numeri, del danno che la guerra del gruppo jihadista affiliato all’Isis sta provocando, basta spingersi al centro di ricovero per il nutrimento terapeutico di Medici senza frontiere (Msf), nel quartiere di Gwange a Maidguri.

    Il capoluogo dello stato del Borno è la capitale spirituale del Califfato africano. È qui che la setta islamista ha preso vita, ha fatto le prime predicazioni e poi ha dato inizio a una lotta armata senza pari e senza pietà alcuna. Autobombe nei mercati, villaggi razziati, bambine kamikaze e oggi a peggiorare il tutto: una carestia implacabile.

    Camminando nelle vie cittadine, spingendosi sino alla Moschea Centrale, e poi nei quartieri periferici pattugliati dall’esercito, ovunque si incontrano donne che insieme ai figli mendicano seduti sui marciapiedi o che rovistano tra i rifiuti sotto un sole inclemente.

    Seguendo questa schiera di hijab variopinti e neonati dai corpi consumati dalla malnutrizione, si arriva nel presidio medico costruito dall’ong Msf.

    Il presidio di Medici senza frontiere

    Il centro di pronto soccorso è l’estremo avamposto per cercare di mettere un argine alle morti dovute alla fame. Alcune tende da campo formano i reparti che possono ospitare sino a un massimo di 110 persone. Ed è proprio entrando in queste tende che l’orrore che sta divorando la Nigeria si mostra in tutta la sua violenza.

    Una ragnatela della sopravvivenza è ciò che si para davanti. Zanzariere immerse tra fili delle flebo e cannule per ossigeno, e letti su cui decine di giovanissimi pazienti sono assistiti dagli sguardi fatalisti delle madri.

    Alcuni bambini, sfiniti dalla malattia, non hanno più la forza neanche di piangere. Gonfiano il costato ripetutamente con respiri veloci e faticano ad aprire gli occhi.

    Altri, come Mohamed, si contorcono nel letto. Ha 7 anni, pesa 14 chili ed è stato ricoverato in uno stato acuto di malnutrizione. Poi c’è Sadih Ibrahim che ha un anno, la temperatura del corpo non scende sotto i 39 e i medici continuano a monitorare il battito cardiaco del piccolo, ammalato di tubercolosi.

    “Solo poche ore fa un bambino è morto. Ogni giorno succede, e noi cerchiamo di fare il possibile, ma la situazione è davvero disperata”, dice il dottor Pindar Wakawa, direttore dell’attività sanitaria di Msf nel centro. Mentre parla visita Umar, che ha 7 anni e il corpo in preda alle contrazioni muscolari, dovute alla malaria celebrale che lo tortura secondo dopo secondo.

    “La mancanza di cibo indebolisce le persone: e anziani e bambini sono i più esposti a malattie”, continua a spiegare il dottore Wakawa. “Il rischio di epidemie è quanto mai concreto, anche perché una larga fetta della popolazione non ha ancora ricevuto le vaccinazioni basiche e serve un intervento umanitario urgente, oltre alla distribuzione di cibo e cure mediche su larga scala e in modo diretto alla popolazione. Non possiamo permetterci di perdere neanche un minuto di tempo, perché qua la situazione è davvero infernale”.

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