La scuola superiore Léo Lagrange di Charleville-Mézières, nel nordest della Francia, ha mandato a casa una studentessa di 15 anni per due volte nel corso delle ultime due settimane perché indossava una gonna la cui eccessiva lunghezza è stata giudicata dal preside come “una chiara ostentazione” della fede musulmana della ragazza.
Il caso ha acceso le discussioni sui social network in Francia e ha fatto infuriare molti tra i musulmani che vivono nel Paese, che considerano discriminatoria la censura della ragazza da parte del sistema della scuola.
Una legge adottata in Francia nel 2004 proibisce agli studenti delle scuole primarie e secondarie di indossare visibili segni della loro appartenenza religiosa a scuola, compresa la kippah per gli ebrei, croci troppo vistose per i cattolici e il velo per i musulmani.
Il personale scolastico, tuttavia, sta interpretando sempre di più la legge in modo tale da estendere il divieto anche a indumenti come gonne lunghe o fasce per la testa, in modi che sembrano cambiare da istituto a istituto.
“È un gran problema,” ha detto Elsa Ray, una portavoce del Collettivo contro l’Islamofobia in Francia.
Il preside della scuola ha ritenuto che la lunga gonna nera della ragazza non fosse in linea con le regole dell’istituto, e ha scritto ai genitori della ragazza per comunicargli che loro figlia era stata mandata a casa per cambiarsi con un abbigliamento più appropriato. Elsa Ray ha definito l’atto una “interpretazione davvero eccessiva” della legge.
Il Collettivo contro l’Islamofobia in Francia ha documentato altri 130 casi simili avvenuti in tutta la nazione a partire da gennaio 2014, i quali, secondo Elsa Ray, starebbero diventando sempre più frequenti.
Questi episodi riguardano spesso la lunghezza della gonna, ha detto la portavoce, ma le scuole hanno spesso avuto da obiettare anche su maglioni o fasce per la testa che ritenevano troppo larghe e che per tale ragione erano considerate simili a veli.
Dato che la ragazza di Charleville-Mézières è minorenne, i media francesi hanno divulgato soltanto il suo nome e l’iniziale del cognome, Sarah K.
Il caso della ragazza evidenzia la difficoltà nel far rispettare la politica francese di laicità, in poche parole il secolarismo, che lotta per tenere la religione rigorosamente al di fuori delle istituzioni e del settore pubblico.
Negli ultimi anni è stato richiesto che venissero limitati i contesti in cui le donne musulmane beneficiano del permesso di indossare indumenti che coprono il loro corpo e il volto.
Il caso mette inoltre in luce il divario esistente tra i modi in cui i francesi e i musulmani interpretano la laicità nel contesto della legge francese.
La madre di Sarah ha dichiarato in un’intervista per la rivista francese L’Obs pubblicata online che, nonostante la famiglia sia praticante, i genitori non hanno mai chiesto a Sarah di indossare il velo, e che anche alcune tra le sue cinque sorelle maggiori non lo indossano.
“Circa un anno fa, ha iniziato a portare il velo, come me,” ha dichiarato la donna nell’intervista. “Ma ogni mattina, quando va a scuola, lo toglie perché sa che è vietato.”
I francesi usano la parola velo per riferirsi sia ai velo vero e proprio che al niqab. Sarah porta il velo. I musulmani considerano il fatto di togliersi il velo prima di andare a scuola come un modo di dimostrare la loro volontà di attenersi alle regole.
Ma il personale scolastico che ha mandato a casa a Sarah ha ricollegato l’abbigliamento discreto della ragazza al velo che indossava prima di entrare a scuola, e ha concluso che anche la gonna lunga che indossava fosse un simbolo della sua identità musulmana.
“È un segno di identità,” ha detto Patrick Dutot, il direttore accademico della regione francese delle Ardenne, che comprende Charleville-Mézières.
“La questione non è quanto è lunga la gonna,” ha spiegato Dutot. “Vengono a scuola con un abbigliamento che rappresenta un credo religioso che rispettiamo. Ma una volta a scuola, bisogna tornare a un contesto repubblicano e laico – eppure rimuovono solo il velo.”
Dudot ha aggiunto che molte altre ragazze si sono recate a scuola con abbigliamenti simili e che sono state mandate a casa a cambiarsi, senza che si verificassero incidenti, e che solo Sarah e la sua famiglia hanno sollevato un polverone per l’accaduto.
Sarah ha detto a un giornale locale, L’Ardennais, che la gonna lunga, una delle due che lei e sua madre avevano comprato a Kiabi, una nota catena di vestiti a basso costo, non era nè simbolo religioso nè un tentativo celato di aggirare il divieto.
“La gonna non era davvero niente di speciale,” ha detto la ragazza. “Era molto semplice. Non aveva niente di eccessivo”.
Una foto di Sarah comparsa sul quotidiano nazionale Le Monde, ritrae una ragazza che sorride gentile e che indossa un velo bianco e nero, una lunga gonna nera che non arriva a coprirle le scarpe, una camicia bianca aderente e sopra un golfino rosa chiaro.
Se non fosse per il velo, sarebbe difficile identificare il suo abbigliamento come tipicamente musulmano, e ancora meno se la gonna fosse grigia anziché nera.
Ciononostante, la scuola non ha voluto sentir ragione. La nota che il preside ha scritto ai genitori di Sarah includeva un’implicita minaccia di espulsione, nella quale si intimava loro di “correggere il modo in cui la ragazza si veste se volete che lei prosegua la sua educazione.”
Dal momento che la notizia ha attirato una crescente attenzione nei media, Dutot e le alte cariche dell’istruzione della regione francese coinvolta nel caso hanno dichiarato che nessuno aveva di fatto parlato di espellere Sarah.
Le autorità hanno rilasciato una dichiarazione in cui sostengono che si aspettavano di risolvere il problema attraverso “la comprensione reciproca” con la ragazza e la sua famiglia.
Nonostante ciò, il Collettivo Contro l’Islamofobia in Francia ha dichiarato che avrebbe domandato al ministero dell’Istruzione di “mettere un punto fermo a quello che sta accadendo e di assicurarsi di fornire direttive concrete alle scuole” su come interpretare in modo appropriato il divieto di indossare indumenti che esplicitino la propria appartenenza religiosa.
L’articolo di Alissa Johannsen Rubin è stato pubblicato qui. Traduzione a cura di Irene Fusilli.