Esclusivo TPI – Radio Nagorno: notizie dal fronte: Nemmeno i simboli religiosi si salvano dal fuoco della guerra. Un bombardamento attribuito alle forze azere ha colpito nelle ultime ore la Cattedrale di Ghazanchetsots, sede della diocesi della chiesa apostolica armena, situata nella città di Shushi, uno dei più importanti monumenti religiosi dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, dove la guerra è tornata a mietere vittime dopo anni di tregua armata. Come succede spesso in questi casi, le parti si accusano a vicenda: mentre il ministero della Difesa dell’Azerbaigian ha smentito che il danneggiamento della basilica abbia “nulla a che fare con le operazioni militari” di Baku, le autorità locali denunciano ripetuti attacchi sulla città di Shushi e contro la Cattedrale, che hanno ferito almeno tre persone, compresi due giornalisti.
Il fotografo David Ghahramanyan dell’Artsakh Information Center, che ha documentato l’attacco a un vero e proprio simbolo per la popolazione della regione contesa tra Armenia e Azerbaigian, ha reso disponibili a TPI le foto del bombardamento sulla città, pesantemente colpita in giornata da diversi colpi di artiglieria. “I miei colleghi ed io stavamo andando a Shushi quando abbiamo sentito il suono dei bombardamenti”, racconta Areg Balayan, un altro fotografo locale. “Abbiamo scoperto che la cattedrale di Ghazanchetsots a Shushi era stata colpita e così siamo accorsi sul posto: vari colpi d’artiglieria avevano danneggiato la cupola ed erano caduti all’interno della cattedrale”.
“Dopo aver scattato alcune foto, siamo ripartiti per spedirle, quando il vescovo della cattedrale, Padre Andreas Tavadyan, ci ha dato la notizia che la chiesa era stata attaccata per la seconda volta ed aveva subito ulteriori danni”, prosegue Balayan. “Sappiamo che al momento del secondo attacco c’erano dei giornalisti stranieri all’interno, tre di loro sono stati portati in ospedale e riportano gravi ferite”. Secondo fonti vicine al ministero della Difesa armeno, “in totale tre persone sono rimaste ferite a Shushi, tra cui una in modo grave: il blogger russo Yuri Kotenok”. Tra i coinvolti nell’attacco al complesso religioso figurerebbe anche un altro giornalista russo.
Conosciuta anche come cattedrale di Cristo san Salvatore, la chiesa armena, costruita nella seconda metà del XIX secolo, ha avuto una storia travagliata: consacrata per la prima volta nel 1888, fu danneggiata durante i pogrom contro la popolazione armena negli anni ’20, fino a diventare un granaio in periodo sovietico ed essere nuovamente colpita durante la guerra degli anni Novanta, fino al restauro che permise di riconsacrarla nel 1998.
Negli anni del conflitto, tra il 1989 e il 1992, il complesso religioso, considerato il secondo centro spirituale più importante dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, fu trasformato in un arsenale dagli azeri. Il vicino monastero e la chiesa furono gravemente danneggiati durante gli scontri avvenuti allora in città, prima conquistata dalle forze di Baku e poi ripresa dagli armeni. “La conquista di Shushi rappresenta una vittoria epocale per gli Armeni. Poche armi, pochi uomini rispetto all’esercito azero e una vittoria che è entrata nella Storia. È la vittoria di Davide contro Golia, è il piccolo che sconfigge il grande. È un passaggio epocale nella storia del Nagorno-Karabakh”, così raccontava qualche anno fa la presa della città la giornalista Anna Mazzone, autrice del documentario Nagorno Karabakh, la guerra dimenticata.
Ora la storia sembra ripetersi ma il leader del territorio conteso, Arayik Harutyunyan, ha già annunciato la ricostruzione della cattedrale. Svettando fino a un’altezza di 35 metri, la Cattedrale è una delle più grandi chiese armene al mondo e rappresenta un simbolo per la causa armena in Karabakh. Il restauro e la riapertura del complesso avevano fatto sperare la popolazione locale ma la dura realtà del conflitto, la peggiore crisi nella regione dal 2016, sembra aver riportato indietro l’orologio nel territorio de facto indipendente dall’Azerbaigian dal 1991.
La situazione è precipitata alla fine di settembre, quando una serie di nuovi scontri, seguiti a uno scambio di colpi di artiglieria avvenuto già a luglio, ha provocato una ripresa delle ostilità, che negli ultimi 30 anni hanno causato in tutto quasi 30mila vittime. Il rinfocolarsi del conflitto fra Armenia e Azerbaigian si è ormai trasformato in una guerra in piena regola, con la partecipazione degli eserciti delle due nazioni, dei militari dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, l’appoggio della Turchia e l’attenzione della Russia, per ora defilatasi dallo scontro ma comunque interessata agli sviluppi nel Caucaso.
Da settimane, il presidente Recep Tayyip Erdogan non smette di ripetere che turchi e azeri sono un unico popolo e a sostenere con il proprio arsenale e l’intelligence le forze di Baku, i cui acquisti di armamenti, alimentati dalle ingenti riserve di idrocarburi del Paese, hanno portato negli ultimi anni l’Azerbaigian alla guerra moderna. Il conflitto vede schierati da una parte gli azeri, che possono contare su missili, droni e armamenti moderni forniti a Baku da Turchia e Israele, e dall’altra i militari del Nagorno Karabakh e le forze armene, equipaggiate con armi meno tecnologiche ma che al momento sembrano resistere alle incursioni. Come sempre però sono i civili a subire le maggiori sofferenze degli scontri, che hanno già provocato decine vittime da entrambe le parti, civili compresi, e centinaia di feriti, a cui si aggiungono quasi una cinquantina di mercenari siriani impiegati a sostegno degli azeri.
Secondo le autorità armene infatti, la Turchia “sostiene l’aggressione” in Nagorno Karabakh non solo con forniture militari ma anche con l’uso di mercenari stranieri, provenienti in particolare dalla Siria, un’accusa rilanciata anche dall’Osservatorio siriano per i diritti umani e dal dittatore siriano Bashar al-Assad. “Non possiamo non essere preoccupati che la Transcaucasia possa diventare un nuovo trampolino di lancio per le organizzazioni terroristiche internazionali”, ha commentato negli scorsi giorni il direttore del Servizio di intelligence internazionale russo, Sergei Naryshkin.
Intanto, collaborando con Francia e Stati Uniti, la Russia resta impegnata a mediare tra le parti senza però intervenire direttamente. Il presidente russo Vladimir Putin ha chiarito ieri che Mosca aiuterà l’Armenia “se verrà attaccata”, sottolineando al contempo che le autorità di Yerevan non hanno presentato “richieste alla Russia in merito” perché “la guerra con l’Azerbaigian non è in corso nei territori armeni”.
Al momento non si intravedono ancora segnali concreti per un’interruzione del conflitto. Nonostante gli sforzi di mediazione in corso infatti il Cremlino ha fatto sapere oggi che non sono ancora stati fissati i colloqui tripartiti tra Russia, Armenia e Azerbaigian per cessare le ostilità.
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