Ricordo tutto di quel giorno, il 7 aprile 2011. Avevo 13 anni e vivevo a Raelengo, a Rio de Janeiro, in Brasile. Quando mi svegliai, quella mattina, non volevo andare a scuola. Mi misi a temporeggiare, ma mia madre mi disse: “Devi andare, anche se sei in ritardo.”
Ero a lezione di portoghese quando sentimmo un rumore improvviso. Sembravano petardi e qualcuno disse di non preoccuparci, che probabilmente li avevano fatti scoppiare nel cortile della scuola. Ma il rumore continuava e a un certo punto capimmo che c’era qualcosa di sbagliato: non erano petardi.
C’era una finestra in ogni stanza, quindi riuscivo a vedere dentro la classe vicina. Vidi che tutti correvano e cercavano di uscire. Mi avvicinai alla porta e vidi un giovane uomo con una pistola. Stava sparando alla gente. Volevo correre, ma non riuscivo a muovere le gambe: ero troppo terrorizzata.
La prima cosa a cui pensai fu mia sorella: anche lei era a scuola quel giorno. Finalmente mi girai e corsi a nascondermi sotto le sedie e i tavoli. L’uomo entrò in classe e sparò a un ragazzo, colpendolo a un occhio. Era in piedi davanti a me. Mi disse: “Sei bella, ma stai per morire.”
Mi coprii il viso con un braccio per difendermi e lui mi sparò. Il proiettile penetrò nel braccio. Mirò con la pistola alla mia testa e sparò altre tre volte, ma mancò sempre il bersaglio. Un proiettile mi colpì alla vita e altri due mi entrarono nello stomaco.
Caddi a terra e feci finta di essere morta. Chiusi gli occhi, ma quando li riaprii, vidi che stava sparando ai miei compagni. Ogni volta che si girava verso di me, chiudevo gli occhi di nuovo.
Pensavo che mi avrebbe uccisa, ma era come se lui non potesse più vedermi. La sua sparatoria non durò più di cinque minuti, ma per me fu un’eternità. Quando arrivò la polizia, si sparò e si uccise. In seguito ho scoperto che il suo nome era Wellington Menezes de Oliveira, e aveva 23 anni.
Fu tremendo guardare i miei amici morire e non poter far nulla per loro. In totale ci furono dodici vittime, di cui nove nella mia classe. Non riuscii ad aiutarli, non potevo. Credo che capirebbero, se fossero ancora in vita.
Quando la polizia arrivò, io ero ancora nascosta sotto un banco. Non sapevo se potevo davvero fidarmi di loro. Non volevo uscire. Mi rifiutai di parlare fino a che finalmente non fecero entrare una poliziotta donna. Fui l’ultima a lasciare la classe viva.
È impossibile capire perché Oliveira l’abbia fatto. Ho sentito dire che era stato vittima di bullismo in quella scuola, ma come può essere una giustificazione per quello che ha fatto a noi? Noi non lo conoscevamo nemmeno. Nessuno di noi.
Rimasi in ospedale per tre mesi e il primo anno dopo la strage fu molto duro. Ero depressa. I dottori dicevano che sarei rimasta paralizzata dalla vita in giù, perché uno dei quattro proiettili aveva raggiunto la spina dorsale e danneggiato il midollo spinale. Ma ero determinata a non ascoltarli.
Dopo quattro anni, sono ancora su una sedia a rotelle, ma sento di nuovo qualcosa nelle mie gambe. I dottori avevano detto che non sarei mai migliorata. In realtà sono migliorata moltissimo.
Adesso riesco a stare in piedi con un tutore e voglio tornare a camminare. La mia sedia a rotelle ormai si è rovinata e ne stiamo aspettando una nuova, ma dobbiamo sempre lottare per ottenere tutte le cose di cui ho bisogno: è frustrante.
Ho sempre voluto diventare un’atleta e adesso che sono tornata a scuola ho imparato ad andare in para-canoa. Mi sento libera in acqua, dove siamo tutti uguali.
Mi piacerebbe partecipare alle Paralimpiadi, ma la mia categoria di para-canoa non è inclusa per quelle del 2016, a Rio de Janeiro. Chi sa, forse nel 2020? C’è tempo per allenarsi e migliorare.
Il prossimo anno voglio imparare a guidare, e poi mi piacerebbe studiare legge all’università. Voglio diventare capo della polizia.
Ci sono ancora giorni in cui non voglio alzarmi dal letto, ma credo che sia normale per un’adolescente. Il proiettile è ancora lì, nel mio braccio. Quando il tempo cambia riesco a sentirlo.
È impossibile dimenticare quello che è successo, ma so che mi sarebbe potuto succedere di peggio. Non mi piace andare alle veglie che organizzano a ogni anniversario della strage.
Ho sofferto abbastanza da sola, non voglio vedere anche il dolore di tutte quelle madri. Voglio dare il massimo in questa vita. Sono sopravvissuta e continuerò a lottare per il mio futuro.
L’articolo è stato originariamente pubblicato qui. Traduzione a cura di Vittoria Vardanega