I migranti ambientali sono tutte quelle persone costrette a fuggire da condizioni di inabitabilità del proprio territorio, provocate da eventi disastrosi e improvvisi e dal lento trasformarsi delle condizioni ambientali.
Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale delle migrazioni, riportati in un dossier di Legambiente, il fenomeno è in aumento ed è escluso dal sistema di protezione internazionale. Nel 2014 la probabilità di essere sfollati per questioni ambientali era superiore del 60 per cento rispetto a quarant’anni prima.
Non si tratta di un’emergenza, ma di un cambiamento geopolitico e demografico strutturale, che condizionerà i prossimi decenni. Il dipartimento degli Affari economici e sociali delle Nazioni Unite stima che tra il 1990 e il 2014 i migranti interni agli stati sono stati 763 milioni; quelli verso altri stati 232 milioni.
Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre, che studia il fenomeno mondiale degli sfollati interni, dal 2008 al 2015 le persone delocalizzate sono state 202,4 milioni: il 15 per cento (30.1 milioni) per eventi geofisici, come eruzioni vulcaniche e terremoti; l’85 per cento (172.3 milioni) per eventi atmosferici.
Per quanto riguarda la distribuzione geografica, gli sfollati in America sono 1.514.000; in Africa sub sahariana 1.120.000; in Medio Oriente 83.000; in Asia 16.129.000. Il fenomeno dei profughi climatici è di rilevanza primaria e di intensità superiore rispetto a quello dei profughi da guerra.
Le previsioni sul potenziale numero di migranti ambientali entro il 2050 variano da 50 milioni a 350 milioni. La stima più citata è quella fornita da Norman Myers, ricercatore britannico della Oxford University, che prevede 200 milioni di potenziali migranti ambientali entro il 2050. L’Intergovernmental Panel on Climate Change ritiene che la cifra raggiunga i 150 milioni.