Uno dei più grandi misteri della vita di uno scrittore è la trasformazione che subisce quando da essere un autore inedito, viene pubblicato per la prima volta. Guardate ad esempio la carriera di Salman Rushdie. Ecco la sua intervista del 2005 a Paris Review:
“Molte persone talentuose della generazione di cui ho fatto parte hanno trovato la loro strada come scrittori in giovane età. Sembrava che tutti volessero essere più bravi di me. Martin Amis, Ian McEwan, Julian Barnes, William Boyd, Kazuo Ishiguto, Timothy Mo, Angela Carter, Bruce Chatwin- solo per citarne alcuni. É stato un periodo straordinario per la letteratura inglese. E a quel tempo ero l’unico a essere essere rimasto ai blocchi di partenza, non sapendo che strada intraprendere. Questo ha reso le cose ancora più difficili”.
Non è altro che una competizione.
Prendete una copia della sua autobiografia, “Joseph Anton- A memoir”, e scoprirete che quasi tutte le relazioni, con gli amici, i rivali di scuola, sua moglie, le sue partner, i colleghi scrittori ed infine il mondo islamico, sono viste in termini di vittoria e sconfitta. E al centro di queste lotte, almeno nella prima parte, ricorre “il suo ripetuto fallimento nell’essere, o almeno diventare, uno scrittore di successo”.
Questa è la sfida delle sfide, l’ossessione delle ossessioni. Pubblicare.
Ma per Rushdie, il suo successo potrebbe anche essere legato a una questione d’identità. Allora decide di partire per l’India per rinforzarla (l’autore è anglo-indiano, ndt).
Crede che questo possa aiutarlo a diventare uno scrittore importante, consapevole di aver intrapreso “un enorme progetto da dentro o fuori” in cui “il rischio di fallimento è enormemente maggiore rispetto a quello di riuscita”.
Ma dopo la pubblicazione de I figli della Mezzanotte, “molte cose che non avrebbe nemmeno immaginato sono accadute: premi, vendite importanti, e soprattutto popolarità”.
Durante la premiazione al The Booker ha parlato dell’enorme piacere provato nel ricevere la targa con la scritta VINCITORE.
Ecco di cosa si tratta.
Chi legge i romanzi di Rushdie troverà i personaggi principali essere, come il loro autore, in continua lotta per emergere, o più in generale, per arrivare: Ormus Cama, per esempio, l’eroe di “La terra sotto i suoi piedi”, è ossessionato dalla voglia di diventare una rock star così come il suo autore, Rushdie, lo era del diventare uno scrittore.
Anche “I versetti satanici” vede entrambi i protagonisti rincorrere successo e celebrità.
Per l’autore anglo-indiano vincere è la chiave di tutto.
Rushdie lavora molto sul linguaggio, riempendo le sue opere di giochi di parole complicati e usando termini eruditi; stabilisce fin da subito una gerarchia in cui lo scrittore/narratore si trova su un piano superiore rispetto al lettore, ridotto a semplice spettatore che può solo ammirare l’abilità dell’autore, quando non ne è irritato.
In molte parti di “Joseph Anton”, Rushdie esprime la sua perplessità sull’ostilità a lui riservata dai colleghi scrittori e recensori. Si sente preso di mira maggiormente rispetto a altri, che lui definisce “vincitori”. Forse perché sottolinea spesso quanto importante sia essere visti come tali.
Ma su questo, ahimé, ha ragione.
Nessuno è trattato con più condiscendenza paternalistica di uno scrittore non pubblicato, di un “potenziale” artista. Nel migliore dei casi viene commiserato. Nel peggiore schernito. Ricordo ancora una conversazione tra una dottoressa e mio padre, sul suo letto di morte, quando lei gli chiese cosa stavano facendo i suoi figli. Quando lui rispose che il giovane Timothy stava scrivendo un romanzo e voleva diventare uno scrittore, la dottoressa, inconsapevole che stavo entrando nella stanza, disse a mio padre di non preoccuparsi, che avrei cambiato presto idea e trovato altro da fare.
Molti anni dopo, la stessa donna mi strinse la mano con rispetto congratulandosi per la mia carriera letteraria. Evidentemente non aveva mai letto i miei libri.
Ma perché abbiamo questa riverenza a priori per uno scrittore pubblicato? Cosa trasforma una persona prima schernita in un oggetto della nostra ammirazione? E che effetto ha il cambiamento da derisione a riverenza sull’autore?
Ogni anno insegno scrittura creativa ad un gruppo di studenti. Questi ragazzi sono nel mezzo die vent’anni, solitamente vengono in Italia nell’ambito di uno scambio culturale. La prospettiva della pubblicazione, il bisogno urgente di pubblicare il prima possibile, anima tutto quello che fanno. Spesso cambiano quello su cui stanno lavorando solo perché vogliono produrre qualcosa che sia più commerciale. Per chi non ha mai sofferto di questa ossessione sarà difficile capire come questo assillo possa condizionare e consumare un esordiente.
Questi giovani ambiziosi si danno delle scadenze. Quando non riescono a rispettarle la loro autostima crolla; nasce un’amarezza crescente che va a braccetto con la grossolanità della cultura moderna e la natura mercenaria, come viene percepita dagli editori e dai redattori, che a malapena vedono il senso di schiacciante fallimento personale che attanaglia i giovani scrittori.
Ma siamo tutti consapevoli dei guai derivanti dal “voler essere”. Arriverà infatti il giorno in cui gli aspiranti, o almeno una piccola parte, verranno pubblicati. Quando finalmente giungerà la lettera, la chiamata, la mail. In un istante la loro vita cambierà.
In un momento saranno ascoltati con attenzione, saliranno sul palco dei festival letterari, brilleranno sotto i riflettori dei reading serali, verranno invitati a essere saggi e solenni, a condannare questo e applaudire quello, a parlare dei loro prossimi romanzi come progetti di importanza vitale, o almeno pontificare sul futuro della letteratura in generale, o dell’umanità.
I neofiti solitamente sono entusiasti di questo cambiamento. Sono sempre stato stupito di come rapidamente e spietatamente i giovani romanzieri prendono le distanze dalla comunità di frustrati aspiranti. Dopo anni di buio, gli scrittori sentono che quel successo era inevitabile, nel loro profondo hanno sempre saputo di essere dei prescelti.
Sono ora in una dimensione differente. Il tempo è prezioso. Scoraggiano gli aspiranti dal proporre i manoscritti alle case editrici. É ora di un altro libro, perché non c’è modo di consolidare una reputazione se non alimentarla e valorizzarla. Diventano tutti troppo presto quello che il pubblico vuole che siano: persone a parte, produttori di quella cosa speciale, la letteratura; artisti.
Quando si è editi viene a crearsi una nuova cerchia di amici. Bisogna crescere la propria posizione nella società ed essere riconosciuti come artisti, abbracciando o respingendo l’occasione di recitare la parte del moralista, o quella del ribelle-anche se molte volte le due coincidono- scegliendo di essere costantemente in vista, o di ritirarsi in un’invisibilità che vuol essere provocazione.
Ma rimangono cose che lui o lei non devono mai fare. Mai riconoscere la fiera ambizione che guida la scrittura, mai ammettere che c’è un’insuperabile differenza tra scrittore e lettore, o semplicemente tra scrittore e non scrittore.
Proviamo a inquadrare le cose in maniera più chiara.
Quanti criteri ci sono per giudicare o valutare un’altra persona? Non molti. Sfortunatamente possiamo pensare agli altri solo come buoni o cattivi, coraggiosi o codardi, nostri pari o inferiori, talentuosi o falliti, vincitori o perdenti. Naturalmente ognuno di questi criteri ha le sue sfumature e sottoinsiemi, ma di base, credo che non ce ne siano molti altri. E se mi domandassero qual’è la caratteristica con cui si tende a definire qualcuno credo risponderei con l’ultima dell’elenco. Quello che conta è vincere, vendere, diventare famosi.
Anche se lo scrittore non deve riconoscerlo come obiettivo principale. Anche se si è dei vincenti bisogna parlare e lodare altre virtù.
Ad esempio in “Joseph Anton”, Rushdie sventola la bandiera della libertà di parola. É giusto che Margaret Tatcher sia libera di organizzare una presentazione di un libro mentre io, a causa dei costi della sicurezza, non lo sia? Si possono affrontare molti problemi, curare aspetti estetici, artistici, ma quello che conta realmente è sempre vincere.
Riguardo a questo i siti degli autori sono frutto di interessanti spunti di riflessione, soprattutto quelli dei meno celebrati, che curano personalmente le loro pagine web.
Solitamente la prima cosa che trovate in homepage è un premio, un indicatore di successo. “Nata a Dublino nel 1969, vincitrice di vari premi letterari”, è la frase di apertura del sito di Emma Donoughe, autrice del libro Room. Arnon Grunberg, l’autore olandese vivente di maggior successo, ha una mappa del mondo in cui solo i paesi in cui ha pubblicato vengono nominati. Cliccate su Egitto, Estonia, Giappone e potrete vedere cosa vi è stato edito.
Inoltre un blog in lingua inglese è un chiaro intento di avere un pubblico mondiale. Cos’è il successo senza un pubblico mondiale?
Ma la questione di partenza è sempre la stessa: perché le persone hanno una così alta considerazione per gli autori, anche quando non leggono? Perché affollano i festival letterari, mentre la vendita dei libri crolla? Forse è semplicemente perché reverenza e ammirazione sono emozioni piacevoli; amiamo provarle, ma in un mondo agnostico sarà sempre più difficile trovare delle persone davanti cui prostrarsi senza sentirsi un po’ stupidi.
Politici e militari non sono più all’altezza. Gli sportivi troppo frivoli, le loro carriere troppo brevi. In questo senso c’è un certo sollievo per i lettori nell’avere un eroe letterario, talentuoso e nobile, talvolta anche sofferente, qualcuno che non sembra preoccuparsi di avere più successo di loro.
Alice Munro, con la sua interminabile, quieta, triste ricerca di persone che falliscono nel raggiungere i loro obiettivi, esplorando quel senso di insoddisfazione in un mondo così competitivo, è riuscita a vincere il premio più importante di tutti.
Articolo di Tim Parks per il New York Review of Books. Traduzione di Samuele Maffizzoli
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