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    “I militari reprimono le proteste con violenza. Sparano e torturano ma non ci fermiamo”: reportage tra i manifestanti che occupano Santiago del Cile

    Credit: Irupé Tentorio

    In Cile non si fermano le rivolte contro il governo di Sebastián Piñera. I cittadini che scendono in strada denunciano violazioni dei diritti, torture e sequestri compiuti dalle forze di sicurezza

    Di Marta Facchini
    Pubblicato il 8 Nov. 2019 alle 16:12 Aggiornato il 9 Nov. 2019 alle 14:55

    “Siamo in guerra. La strada è una barricata. E adesso la televisione pubblica sta mandando in onda le telenovelas turche. I media statali non parlano delle manifestazioni e sono quelli con cui si informa la maggioranza della popolazione perché non può permettersi di pagare i canali via cavo”. Jeremías indossa una maglietta nera. Nasconde il volto con un pañuelo grigio che scopre solo gli occhi. Ha trent’anni e lavora come avvocato. Daniela, la sua compagna, è un’assistente sociale. Stanno partecipando a una delle proteste che quasi ogni giorno rendono il centro di Santiago del Cile, la capitale, un campo di battaglia.

    L’Alameda, la via principale che attraversa la città e unisce Plaza Italia al palazzo de La Moneda, è il terreno degli scontri. I negozi sono chiusi, le saracinesche abbassate, i semafori spenti. Non passano macchine, camminano solo le camionette dei militari. Il suono della calle è quello dei cacerolazos e delle sirene sguaiate delle forze di sicurezza. C’è chi grida dalle finestre aperte dei palazzi. “Fuera milicos, fuera”, urlano da un balcone e sventolano una bandiera del Cile in bianco e nero. “Pacos culiaos”, strillano da un terrazzo.

    Credit: Irupé Tentorio

    “Mio padre era operaio, come mio nonno. Siamo cinque figli e abbiamo sempre saputo cos’era la povertà. I miei genitori speravano che noi avessimo una vita migliore della loro. Volevano che continuassi a studiare e ho chiesto un prestito per poterlo fare. Ora mi ci vorranno più di vent’anni per ripagare il debito universitario. Ho un figlio e non riesco ad arrivare a fine mese”, racconta a TPI Jeremías mentre aggiusta il fazzoletto intorno al volto. Coprire la bocca, indossare maschere antigas e occhiali da lavoro è una delle strategie adottate da chi scende in strada perché le forze di sicurezza intervengono tirando gas lacrimogeni e sparando balines di plastica. Daniela fa lo stesso. Protegge il viso ma lascia scoperto il tatuaggio che le disegna un braccio.

    I militari sono violenti. Puntano direttamente alla vista. Alcuni dei miei amici hanno perso un occhio, altri hanno riportato ferite da arma da fuoco. In Cile è sempre stato così, anche durante il governo di Michelle Bachelet. La protesta degli studenti del 2011 era stata repressa con la forza. Ero stato fermato dai carabineros, portato in caserma e torturato. Erano in quattro: mi hanno spogliato e colpito davanti a una poliziotta che rimaneva ferma e mi fissava”, racconta Jeremías.

    “Mio padre ha vissuto la dittatura e nel 2019 ho capito anche io cosa significa vivere con il coprifuoco e con le camionette dell’esercito in strada. Non siamo tornati alla normalità, come sostiene il presidente Sebastián Piñera”, prosegue. “Tutto il mondo vedeva il Cile come il paese dal perfetto modello neoliberale. Invece, è esploso. Qui non si tratta di 30 pesos ma degli ultimi trent’anni di una politica che non ci ha lasciato nulla. Noi non ci fermiamo”.

    Plaza Italia, uno dei terreni degli scontri a Santiago del Cile, il giorno della manifestazione del “Super Lunes” Credit: Irupé Tentorio

    Iniziate contro l’aumento del prezzo del biglietto della metro di Santiago del Cile, le proteste, la più forte crisi sociale del paese degli ultimi decenni, hanno radici nel sistema economico neoliberale del paese, ereditato dalla dittatura di Augusto Pinochet. La maggior parte della popolazione vive con meno di 140 dollari al mese e il divario tra ricchi e poveri aumenta. Il welfare è quasi inesistente, l’assistenza sanitaria pubblica e l’istruzione sono scarse, bassi i salari e le pensioni. Secondo l’Ocse, il Cile è il paese più iniquo dell’America Latina: il tasso di impiego non supera il 55 per cento e il mercato del lavoro è talmente precario che la metà dei lavoratori non riesce ad accumulare i requisiti necessari per avere diritto alla pensione minima. Inoltre, il 33 per cento della popolazione realizza il 33 per cento del Pil del paese.

    Dall’inizio delle sollevazioni, partite da Santiago e ora estese a tutto il paese, stando ai dati dell’Indh, organismo indipendente cileno, si sono verificate reiterate violazioni dei diritti umani. Le vittime ufficiali sono venticinque, tra cui un bambino di quattro anni: 14 civili sono stati assassinati e 11 sono morti carbonizzati in un supermercato. Tuttavia, su questi ultimi non è stata eseguita l’autopsia e, secondo le reti sociali, i manifestanti sarebbero stati uccisi dai milicos durante lo stato di emergenza  e nascosti nel supermarket, dove poi sarebbe stato appiccato il fuoco. I feriti gravi ricoverati in ospedale sono più di mille. Le organizzazioni della società civile parlano di stupri, violenze e torture. Finora, le denunce formali per violenza sessuale a carico dello Stato sono 18, quelle per torture sono 92 e sono cinque le denunce per omicidio.

    “Abbiamo ascoltato le testimonianze di donne che ci hanno detto di essere state stuprate. Abbiamo visto sui loro corpi i segni delle aggressioni”, racconta Libertad, ginecologa. Tiene legato intorno al polso il fazzoletto verde del movimento femminista per l’aborto libero. Da quando sono iniziate le proteste, ha sempre partecipato alla marce e ai cabildos, le assemblee popolari autogestite in cui si discute una nuova costituzione. “Ci sono diciotto denunce formali ma i numeri sono molto più alti. Solo io ne ho dieci in più e altre le hanno le mie colleghe. Non sono contate dall’Istituto Nazionale per i Diritti Umani perché molte hanno paura a presentare un ricorso ufficiale”, continua. “La ministra per le Pari Opportunità non ha ancora detto una parola. Lo Stato non ci ascolta. Non assolve più la sua funzione fondamentale, proteggere i cittadini”.

    “In Cile il governo di Piñera sta reprimendo chi lotta contro le diseguaglianze sociali”

    Piñera, ora al più basso livello di popolarità del suo mandato, ha convocato il Consiglio di sicurezza nazionale. La nuova agenda del presidente mira a rafforzare il contrasto dei disordini in piazza e il perseguimento dei reati collegati. Inoltre, sarà presentata in Parlamento una proposta di “legge anti-incappucciati” per colpire con pene più dure i disordini provocati da persone con il volto coperto. La manifestazione del “Super Lunes”, convocata lunedì 4 novembre dalla Mesa de Unidad Social, è stata duramente repressa dalle forze di sicurezza. Lo stesso giorno, i militari hanno lanciato gas lacrimogeni nel patio dell’Università Cattolica dove, dopo settimane di chiusura, si era ripreso a studiare e dove un gruppo di studenti stava manifestando pacificamente. Tre ragazzi sono stati feriti e le lezioni sono state di nuovo interrotte.

    Anche Alicia partecipa alle manifestazioni dall’inizio. Indossa un paio di occhiali con le lenti scure e spesse. Copre la bocca con una mascherina bianca a righe. “Daniela Carrasco è stata trovata impiccata a un cancello nel sud di Santiago. Ma che fine hanno fatto tutte le altre? Dopo la dittatura, dobbiamo ancora parlare di persone di cui si è persa ogni traccia. Questa non è una democrazia. Le mani di Piñera sono sporche di sangue”, dice con forza. Dietro di lei, il muro dell’Università pubblica del Cile è ricoperto di scritte. Ci sono le foto di alcune delle persone scomparse. C’è quella di Valeska Carmona Lopez. Ha i capelli lunghi e sciolti sulle spalle, sorride. È morta a 33 anni per il tiro di un militare in Avenida Indipendencia. Anche Josè Miguel Uribe Antipani, solo 25 anni, ha perso la vita colpito da un militare. “Chiediamo indagini serie. Vogliamo verità e giustizia”, prosegue Alicia. “Sin perdon, ni olvido”.

    *All’articolo ha lavorato anche la fotografa e giornalista Irupé Tentorio
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