“Nascondi il cellulare. La gente delle favelas non è cattiva, ma la povertà può essere pericolosa”.
Metto il cellulare dentro ai pantaloni. Non in tasca, ma tra i pantaloni e la mia pelle. Mi dà fastidio, ma spero non cada.
Matheus Ribeiro ha 38 anni e vive nel Complexo do Alemão, un complesso di favelas a nord di Rio de Janeiro, in Brasile.
Si comporta come se niente fosse, ma capisco quasi subito dai suoi comportamenti che ha un occhio molto vigile. D’altronde, per oggi, lui è la mia guardia del corpo. Un mio amico sapeva che volevo visitare il Complexo do Alemão e me lo aveva presentato.
“Sempre meglio andare con qualcuno che conosce questi luoghi,” mi aveva detto.
È vero che i labirinti delle favelas possono essere pericolosi per chi ci entra da solo, a volte anche solo perché rischi di perderti o di trovarti nel posto sbagliato al momento sbagliato, come in mezzo a una sparatoria tra trafficanti locali e la polizia.
“A volte ho più paura della polizia che dei trafficanti,” mi racconta Matheus. “Se non ostacoli il lavoro dei trafficanti, loro ti lasciano stare. La polizia invece può ucciderti da un momento all’altro e senza un reale motivo”.
Matheus ha la carnagione scura e, da tipico carioca, gli piace mantenersi in forma. Un fisico atletico, qualche tatuaggio e l’orecchino all’orecchio destro. “Potrebbero uccidermi anche solo perché sono un ragazzo giovane e forte, dall’aspetto minaccioso”.
Sembra assurdo che qualcuno possa essere ucciso a causa del proprio aspetto fisico, ma secondo un rapporto di Amnesty International pubblicato lunedì 3 agosto 2015, la polizia militare di Rio de Janeiro ha ucciso 1.519 persone negli ultimi cinque anni, pari al 16 per cento del numero totale di omicidi registrati in città.
Le vittime della violenza della polizia sono al 75 per cento uomini neri di età compresa tra i 15 e i 29 anni e vivono in quartieri poveri come il Complexo do Alemão.
Ancora oggi ci sono molti pregiudizi contro chi vive nelle favelas. Molti abitanti vengono giudicati come criminali a prescindere. A volte la polizia spara per paura di essere uccisa a sua volta.
Come accadde nel caso di Eduardo Ferreira, il bambino di dieci anni ucciso nell’aprile del 2015 proprio nei pressi del Complexo do Alemão, quando un poliziotto pensò che stava per tirar fuori una pistola dalla tasca.
In realtà il bambino stava cercando il suo cellulare, ma le forze di sicurezza erano nervose perché molti dei loro colleghi erano rimasti uccisi recentemente negli scontri contro i trafficanti.
Il rapporto di Amnesty accusa la polizia anche di godere di una sorta di impunità, sostenendo che la maggior parte dei casi sono presentati dalla polizia come “resistenza seguita da morte”, e lasciano quindi intendere che le vittime siano colpevoli del loro stesso omicidio. Inoltre, questa motivazione fa sì che i membri della polizia possano evitare di presentarsi al tribunale civile.
Le autorità di Rio sostengono che non è così e che negli ultimi cinque anni sono stati processati 587 agenti di polizia.
La presunta impunità della polizia di Rio de Janeiro è solo uno dei motivi per cui la polizia brasiliana non trasmette sicurezza alle popolazioni delle grandi città.
Un sondaggio condotto dall’istituto di ricerca brasiliano Datafolha e pubblicato alla fine di luglio del 2015 dal quotidiano Folha de S. Paulo, rivela che il 62 per cento dei residenti nei centri urbani ha paura di essere picchiato dagli agenti della polizia militare, e il 53 per cento ha paura di essere vittima di violenza da parte della polizia civile.
“Sappiamo che non è normale aver paura di chi è lì per proteggerti,” mi dice Matheus. “Ma qui è così. Anche questa è Rio”.
Il rapporto è stato pubblicato di proposito in coincidenza con l’inizio del conto alla rovescia per le olimpiadi che si terranno a Rio nell’agosto del 2016.
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