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    Pınar Selek alle prese con la giustizia turca

    La sociologa che si occupa dei diritti delle minoranze in Turchia è sotto processo da 15 anni. Secondo le Ong si tratta di persecuzione giudiziaria

    Di Cristoforo Spinella
    Pubblicato il 27 Gen. 2013 alle 19:31 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 23:01

    Pınar Selek alle prese con la giustizia turca

    Il 9 luglio 1998, quando a Istanbul un’esplosione nel Bazar Egiziano (o delle Spezie, come spesso indicano le guide turistiche italiane) uccide 7 persone e ne ferisce 120, Pınar Selek è già nota agli investigatori turchi. A 28 anni, la sociologa aveva già avviato le sue ricerche sulla condizione di minoranze come transessuali e curdi. I poliziotti che la arrestano vogliono sapere i nomi dei militanti che ha intervistato, ma lei si rifiuta di rivelarli. Per le autorità, questa difesa delle fonti è sufficiente per sospettare un legame con i ribelli curdi del Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), che Ankara considera terroristi, e persino un coinvolgimento nella tragedia del Bazar. Il calvario umano e giudiziario di Pınar Selek inizia così e non finisce più: 15 anni di processi e assoluzioni, perizie e contraddizioni, fino alla prima condanna all’ergastolo del 24 gennaio che ha fatto gridare allo scandalo le Ong di mezzo mondo.

    Negli oltre due anni che trascorre nelle prigioni turche, Selek denuncia torture che vanno dal supplizio della corda all’elettrochoc e che molte inchieste hanno confermato come pratiche comuni nei confronti dei presunti terroristi. Ma nel 2000 il suo rilascio in attesa di giudizio diventa inevitabile di fronte ai risultati dell’inchiesta, che escludono la presenza di esplosivo sulla scena del crimine e ipotizzano piuttosto una fuga di gas: “Il rapporto del procuratore non è scientifico, è scritto con l’intenzione di ingannare il tribunale. La nitrocellulosa si può trovare in diverse sostanze, ma non prova la presenza di una bomba”, si legge nella relazione emessa a giugno dal dipartimento di analisi chimica dell’Università di Istanbul, confermata un mese dopo dagli studi della facoltà di medicina forense dell’ateneo di Cerrahpaşa: “Nessuna delle prove è compatibile con i danni causati dall’esplosione di una bomba”. Nel frattempo, un altro degli imputati che inizialmente l’aveva accusata modifica la sua dichiarazione, discolpandola.

    Secondo l’indagine, insomma, Pınar è innocente. Lo confermeranno poi ben tre sentenze di assoluzione dell’Alta Corte Penale di Istanbul, nel 2006, 2008 e 2011. In tutti e tre i casi, però, la Cassazione si oppone e chiede la revisione del processo. L’ultima volta nel novembre scorso, con una decisione che la Federazione Internazionale per i Diritti Umani (Fidh) e l’Organizzazione Mondiale contro la Tortura (Omct) giudicano illegittima perché si tratta di ‘cosa giudicata’. Così, il quarto processo per gli stessi presunti reati e la condanna. Eppure, oggi la sociologa dice ai suoi sostenitori: “Credo nella lotta giuridica. Ci ho sempre creduto: mio nonno era avvocato, mio padre pure. Ho vissuto in un ambiente di battaglia legale e farò di tutto per essere assolta e tornare a casa mia, perché sono innamorata di Istanbul”.

    Nell’attesa della pronuncia della Cassazione, Pınar potrebbe chiedere l’asilo politico in Francia, dove vive da alcuni anni. I documenti per il dottorato che sta portando avanti nell’Università di Strasburgo potrebbero infatti non essere sufficienti per evitare l’estradizione in caso di condanna definitiva. In ogni caso, una bella grana per il governo francese, che nel post-Sarkozy sta cercando di migliorare le relazioni con la Turchia entrate in crisi per le obiezioni all’ingresso di Ankara nell’Ue, e per la legge dello scorso anno – poi annullata dal Consiglio Costituzionale – sulla penalizzazione del negazionismo del genocidio armeno.

    Il destino di Pınar Selek sarà quindi un banco di prova non solo per lei. Sotto i riflettori c’è la discussa macchina giudiziaria della Turchia. Non solo per le accuse delle opposizioni, che denunciano un asservimento alla volontà dell’esecutivo specie nei processi sui presunti golpe Ergenekon e Balyoz e in quelli sui fiancheggiatori del Pkk, che hanno portato all’arresto – tra gli altri – di centinaia di giornalisti, accademici, avvocati e sindacalisti. Ci sono anche i numeri, inequivocabili: ogni dieci detenuti, nelle affollatissime carceri turche, quattro sono ancora in attesa di giudizio. Non solo, a causa della durata e dell’iniquità dei suoi processi negli ultimi 10 anni Ankara è stata giudicata ben 3.700 volte dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha riconosciuto risarcimenti per oltre 150 milioni di euro alle vittime di sentenze ingiuste. Una situazione che stenta a migliorare nonostante i pacchetti di riforma giudiziaria varati in questi anni dall’esecutivo di Tayyip Erdoğan. Selek, però, non perde la fiducia: “Il complotto che ho subito non è cominciato oggi. Ma il mio processo dimostra che lo Stato profondo esiste ancora, ed è forte. Hanno voluto fare di me un simbolo d’intimidazione, ma il sostegno di tanta gente dimostra che sono diventata un simbolo di resistenza”.

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