«Lo status di Paese candidato concesso da Bruxelles è un punto di svolta importante, invia un potente messaggio a Putin, e cioè che per lui è tempo di fare marcia indietro. Ora però serve un altro passo. E quel passo non può essere altro che l’avvio del processo d’ingresso dell’Ucraina nella Nato». Petro Poroshenko, ex presidente ucraino e leader del principale partito dell’opposizione non ci gira attorno: nella sua intervista a TPI spiega che il momento per l’ingresso dell’Ucraina nella Nato, il grande spauracchio che aveva agitato Mosca, è propizio. «È tempo di smettere di chiedersi come reagirà Mosca, è tempo di smettere di avere paura di Putin. Senza Kiev il progetto europeo è incompleto, e senza l’Ucraina il progetto transatlantico tradisce la sua natura».
La presidenza di Poroshenko inizia nel 2014, nel pieno del periodo più controverso della storia moderna dell’Ucraina, dopo le rivolte del Maidan e la fuga del presidente filorusso Viktor Yanukovich. Quando si insedia a Kiev, prendendo il posto del governo di transizione, trova un Paese mutilato dalla perdita della Crimea, una guerra a est che continua a mietere vittime e un esercito i cui ranghi si stanno sgretolando sotto il colpi della corruzione e dell’artiglieria russa. Tra le decisioni che marcheranno la sua presidenza c’è infatti l’investimento di capitali ingenti nella ristrutturazione dell’esercito ucraino su standard Nato. Una scelta che metterà a dura prova le finanze di un’Ucraina disastrata dalla guerra e dalla corruzione.
Su quella scelta arrivarono critiche. Oggi invece la ringraziano?
«Sono orgoglioso di essere stato il presidente che ha creato il nuovo esercito ucraino, l’esercito che oggi tutti voi vedete battersi contro quello che dovrebbe essere il secondo esercito più potente al mondo. Durante la mia presidenza abbiamo investito per modernizzare armi, gli addestramenti e migliorare le catene di comando. L’esercito che vedete oggi è meglio addestrato ed equipaggiato di quello che nel 2015 liberò Konstantinovka e Kramatorsk dall’occupazione russa: per questo non ho dubbi che quanto fatto accadrà di nuovo. Grazie al nostro esercito libereremo le nostre città, libereremo Mariupol».
Tra le prime mosse intraprese da Poroshenko una volta giunto alla guida del Paese, c’è stata anche la conduzione dei negoziati che hanno portato alla firma dell’accordo di Minsk II, un’intesa di cessate il fuoco mediata dall’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce) che conteneva una roadmap a punti per la de-escalation del conflitto nell’Est dell’Ucraina. Gli accordi di Minsk sono stati prima pesantemente attaccati dagli oppositori di Poroshenko come una capitolazione e successivamente criticati per la loro inapplicabilità da alcune delle cancellerie europee. Mosca invece ne ha imposto una lettura differente, interpretandoli come un primo riconoscimento dell’autonomia delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk.
Col senno di poi, gli accordi di Minsk erano davvero fatti male?
«Gli accordi di Minsk contenevano clausole chiare sul ritiro delle truppe russe, il disarmo dei proxis di Mosca in Ucraina, il rilascio degli ostaggi e il ritorno del controllo dei confini dell’Ucraina affidato al governo di Kiev. Fino al 24 febbraio scorso gli accordi di Minsk sono stati coperti di critiche da ogni lato: c’era chi diceva che c’erano troppe concessioni, altri invece che non ce n’erano abbastanza. Ma dopo il 24 febbraio nessuno li ha criticati più. Sia in Ucraina sia fuori hanno capito che quegli accordi sono stati il modo di fermare l’escalation del conflitto dal 2015 fino a pochi mesi fa. Questi otto anni ci hanno permesso di ricostruire l’esercito, di rilanciare l’economia e di creare una coalizione globale contro Putin. In sintesi è anche grazie agli accordi Minsk se Putin ha fallito il suo assalto a Kiev».
Il 12 febbraio 2015 a firmare quegli accordi oltre agli allora presidenti di Francia e Germania François Hollande e Angela Merkel e al padrone di casa Aleksandr Lukashenko, a Minsk c’era anche il presidente russo Putin.
Poroshenko, lei rimane l’ultimo capo di Stato ucraino ad aver condotto di persona un negoziato con il presidente russo, che dal 2016 in poi non ha mai più voluto incontrare nessun rappresentante del governo di Kiev. Che consigli darebbe a chi un domani dovesse nuovamente negoziare con lui?
«Vladimir Putin io l’ho avuto davanti diverse volte e credo di aver capito due regole fondamentali per negoziare con lui. Primo: non bisogna mai avere paura di lui, Putin vive delle debolezze altrui, se saremo deboli lui avanzerà fino quando glielo permetteremo. Non dimenticate che Putin ha vissuto a Dresda, in Germania, e dentro di sé ancora pensa che anche quella città appartenga alla Russia, come per i Paesi baltici. Chissà, magari un giorno reclamerà anche l’Alaska: l’uso che fa della storia è pretestuoso, per quel che ne sappiamo potrebbe anche inventarsi che la Sicilia appartenga alla Russia. La seconda regola è che non bisogna credere mai a ciò che dice, Putin è un mentitore seriale. Mi ha promesso molto durante i miei cinque anni di presidenza: il ritiro dell’artiglieria, lo scambio di prigionieri, ma poi niente. Chiunque voglia parlare con Putin deve avere chiara una cosa: lui è un uomo che non mantiene mai la sua parola».
In Italia però c’è ancora chi si offre di andare a Mosca e addirittura di invitare Putin qui. Diverse forze politiche chiedono che non si abbandonino gli sforzi diplomatici. Che messaggio rivolge a loro?
«Se qualcuno vuole parlare con Putin lo faccia, ma abbia presente che è una figura tossica, è un criminale di guerra che porta su di sé la responsabilità di uccisioni e stupri di donne e bambini. Se qualcuno vuole parlarci si assuma la responsabilità di ciò che fa. Per quel che riguarda un viaggio di Putin in Europa, c’è certamente un posto adatto a lui e che lo aspetta a braccia aperte: L’Aja».
Il Governo italiano invece ha scelto la linea dura contro la Russia, e non era scontato perché Roma, si sa, ha sempre tenuto buoni rapporti con Mosca. Draghi però rischia di perdere pezzi di maggioranza sulla questione delle armi: è preoccupato che qualcosa possa cambiare?
«Il Governo di Mario Draghi ha finalmente messo da parte l’illusione che si possa garantire la sicurezza in Europa grazie a un rapporto personale con Putin: quella dell’“amico Putin” è una formula che non ha mai funzionato. Sulla questione delle armi vorrei prima di tutto ringraziare l’Italia per il supporto garantito finora, ma anche sottolineare che darci le armi è di vitale importanza per l’Italia e per l’Europa stessa, è un investimento sulla sicurezza europea: più armi riceviamo e prima sconfiggeremo la Russia. Ci servono armi capaci di cambiare gli equilibri sul campo, abbiamo bisogno di artiglieria, carri armati, caccia e sistemi missilistici anti aereo e anti nave. Voi in Italia producete tutti questi sistemi e ad altissimi livelli: aiutateci a difendere il nostro Paese e il vostro continente».
Su questo tema lei e il presidente Zelensky parlate con voce unica, ma la coabitazione a Kiev non è sempre stata idilliaca o sbaglio? Addirittura lei è sotto inchiesta per tradimento per un presunto acquisto di carbone dalle miniere delle zone sotto occupazione russa, inchiesta che molti giudicano politicamente motivata.
«Guardi, ho incontrato Zelensky il primo giorno di guerra e mi sono messo a disposizione, perché l’unità del Paese al momento è una delle armi più importanti per vincere questa guerra. Qualcuno però ora cerca di attaccare questa unità. Due settimane fa hanno cercato di impedirmi di viaggiare con la scusa di una firma poco chiara sul permesso di espatrio. Forse qualcuno a Kiev, qualcuno vicino a Zelensky, pensa di mettersi a fare il furbo e regolare i conti interni. Beh, mi faccia dire che sbaglia e che se adesso perdiamo l’unità politica perdiamo tutto».
Con l’inizio del conflitto lei ha continuato la sua attività politica: nei giorni bui dell’assedio d Kiev si è fatto intervistare con il mitra in mano nelle brigate di difesa territoriale. Lei però è un imprenditore di successo con un elevato patrimonio finanziario: molti le hanno chiesto di investire parte dei suoi capitali per sostenere gli sforzi del Paese. Lo ha fatto?
«Sì, ho investito circa 10 milioni di dollari per sostenere l’esercito e il battaglione di volontari Brothers in Arms, che ho fondato, e per rafforzare le difese antiaeree di Kiev. Inoltre ho stanziato molti fondi in aiuti umanitari, ma i dettagli non sono pubblici».
Torniamo allo status di candidato concesso dall’Unione europea all’Ucraina: ci crede davvero a un’Ucraina nell’Ue?
«Sì, anzi accadrà molto prima di quanto lei creda: la nostra lettera di richiesta di quello status è firmata con il sangue dei nostri soldati, siamo la nazione più euroentusiasta del continente oggi e vogliamo lasciarci alle spalle l’era sovietica. I sondaggi parlano chiaro: tutti i Paesi dell’Ue supportano il nostro ingresso, chi più chi meno, ma è un dato sempre sopra il 50%, l’Europa non perda tempo, è un momento che non va sprecato».