Una donna fuori dalle righe, un’outsider, una narcisista, una enfant terrible, una ninfomane. Una donna disturbata e emancipata; timida e naive. Un lupo solitario. Queste sono solo alcune delle caratteristiche che emergono in Peggy Guggenheim: Art Addict, nuovo documentario diretto da Immordino Vreeland presentato al Tribeca Film Festival ad Aprile 2015 e nelle sale italiane lunedì 14 marzo. Solo per un giorno, purtroppo. E solo nelle sale del circuito The Space Cinema.
Il docu-film racconta la storia di una delle figure più controverse e interessanti del secolo scorso, grazie anche al ritrovamento di alcune cassette (si credeva fossero andate perse) contenenti l’ultima intervista audio della Guggenheim alla sua biografa, Jacqueline B. Weld.
La storia di una donna, della collezionista che ha vissuto e respirato arte per tutta la sua vita. Una vita talmente intensa e piena di tanti avvenimenti (tra i più dolorosi la morte del padre nel naufragio del Titanic del 1912 che le procurò un esaurimento nervoso; la morte poi della sorella Benita e il suicidio della figlia quarantaduenne, Pegeen) che racchiuderli in un lungometraggio di 90 minuti non deve essere stata un’impresa semplice.
Nipote di Solomon R. Guggenheim, la Guggenheim proveniva da una famiglia ebrea di origini tedesche che viveva a New York, considerata una delle più facoltose famiglie industriali dell’epoca. Non frequentò mai l’università e non aveva neanche questa grande formazione di storia dell’arte, per non dire che ne era praticamente sprovvista.
Consapevole di questi suoi punti deboli, sapeva quando porre domande e si faceva circondare da tutta una serie di figure che potevano colmare le sue lacune artistiche. I suoi mentori. Tipo Marcel Duchamp “che mi ha insegnato tutto sull’arte moderna”; Piet Mondrian, colui che le suggerì di investire sul genio di Pollock, artista il cui lavoro all’epoca era considerato troppo all’avanguardia; Howard Putzel, che l’aiutò a dirigere la sua galleria newyorchese.
Era un vero e proprio personaggio, e il suo modo di fare così creativo era ciò che amavano di più gli artisti. In qualche modo però era considerata una dilettante, una falsificatrice del buon gusto e una specie di donnaccia triste e poco desiderabile. La sua emancipazione era talmente elevata che non aveva problemi ad andare con chiunque la intrigasse.
“Credo di essere stata una sorta di ninfomane,” dice la Guggenheim. E quando si sofferma su Out of This Century, autobiografia pubblicata nel 1946 che descrive le sue imprese sessuali, racconta che la sua famiglia disse “Sta fuori di testa”. “Il mio libro era tutto uno scopare e scopare”, dice maliziosamente nella cassetta audio.
Alcuni tra le persone più intime e vicine alla collezionista, compresi rinomati attori del cinema, intervistati dalla Vreeland in qualche modo hanno alimentato questi stereotipi legati alla sua personalità.
Una storia che incuriosisce e che va assolutamente vista per tanti motivi: perché la Guggenheim era presente quando il mondo dell’arte contemporanea nasceva; perché molte delle opere che il patrimonio della sua sua famiglia le permisero di acquistare furono salvate dalla furia nazista dell’Europa della seconda guerra mondiale; perché ebbe tanto coraggio a vivere la sua vita come più voleva, pagando un caro prezzo per questo suo modo di fare.
E se non vi sarete saziati abbastanza, il 19 marzo apre a Palazzo Strozzi di Firenze la mostra “Da Kandinsky a Pollock. La grande arte dei Guggenheim”.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Griot con il titolo Documentario e mostra raccontano chi era Peggy Guggenheim.
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