Gli hamer sono una tribù indigena che vive nella valle dell’Omo, nel sud dell’Etiopia. Sopravvivono di pastorizia e agricoltura di sussistenza.
Il governo etiope, però, da anni cerca di sfrattare la popolazione hamer per appropriarsi delle loro terre. E quando loro si rifiutano, l’esercito interviene con pestaggi, stupri e arresti arbitrari.
Secondo quanto denuncia Survival International, organizzazione non governativa che difende i diritti dei popoli indigeni, negli scorsi giorni circa dieci persone sono morte negli scontri tra esercito e pastori locali.
“Gli abitanti del mio villaggio si sono rifiutati di muoversi”, racconta un abitante del villaggio di Gambella, nella valle dell’Omo, in un’intervista con i ricercatori del think-thank californiano Oakland Institute.
“Hanno iniziato a sparare in aria con i fucili. Ma anche se cercavano di intimidirci, non ci siamo mossi: questa è la nostra terra, perché dovremo andar via?”.
Gli hamer e gli altri abitanti di questa regione – tra cui i gruppi di etnia mursi e bodi – sono vittime di una politica del governo etiope chiamata villagizzazione: per lasciare le terre a investitori che vogliono sfruttarne le risorse minerarie o trasformarle in piantagioni su scala industriale, i contadini locali vengono sfrattati e trasferiti forzatamente in altri villaggi.
“Il governo ci ha detto che se non li asseconderemo, saremo sgozzati in pubblico come capre”, ha detto a Survival international un rifugiato di etnia hamer.
Agli sfrattati sono stati promessi cibo, scuole e servizi sanitari gratuiti, ma le promesse non vengono sempre mantenute.
“Il governo ottiene fondi dagli investitori, ma questi soldi non arrivano mai alle comunità sfrattate: le istituzioni si riempiono le tasche e i contadini muoiono di fame”, denuncia uno degli abitanti.
In Etiopia metà del Prodotto interno lordo deriva dall’agricoltura e quattro persone su cinque vivono nelle aree rurali. Da metà del 2000, il governo etiope ha assegnato milioni di ettari di terra a investitori stranieri.
Il programma di sviluppo agricolo governativo prevede lo spostamento di 1.5 milioni di famiglie dalle loro terre a nuovi villaggi costruiti dal governo.
Diverse associazioni umanitarie, però, denunciano che gli spostamenti non sono volontari e sono accompagnati da minacce, arresti arbitrari, stupri, pestaggi e sequestri.
“Questo non è sviluppo: gli investitori stanno distruggendo la nostra terra e la natura”, protesta un abitante del Benishangul, regione nell’ovest del Paese.
“Non c’è scuola, non c’è cibo, distruggono tutte le risorse naturali. Il bambù qui è fondamentale per la vita delle persone: viene usato come cibo, per il bestiame, per le case, per il fuoco, per tutto. Ma gli investitori distruggono pure quello”.
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