Mentre l’Unione Europa, più litigiosa e divisa che mai, vacilla e il prezioso trattato Schengen viene messo in discussione da barriere e nuovi controlli alle frontiere, il continente africano ha imboccato la strada opposta e dato vita a una serie di iniziative che puntano forse, sul lungo periodo, a creare il tipo di comunità che esiste (o esisteva) in Europa, fondata sulla libera circolazione di beni e persone.
Mentre il Ruanda, il Benin e lo Zimbabwe hanno annunciato diverse formule per eliminare la necessità dei visti, l’Unione africana (Au – un’organizzazione che comprende tutti gli stati africani tranne il Marocco con sede ad Addis Abeba) ha finalmente raggiunto un accordo sul passaporto panafricano.
Secondo il presidente della commissione Au, Nkosazana Dlamini Zuma, il passaporto unico sarebbe un primo passo verso un’Africa più stabile, più prospera e più integrata, finalmente pronta a prendere il suo posto sulla scena mondiale.
Aisha Abdullahi, commissario Au per gli affari politici, ha quindi reso noto che è stato dato l’incarico a dei consulenti per pianificare un mercato comune africano, il quale potrebbe vedere la luce già nel 2017.
Ma per quanto riguarda il passaporto, e benché si pensi di rilasciarne uno ai diplomatici entro il 2018, i cittadini africani, oltre un miliardo di persone, dovranno attendere che i singoli governi nazionali redigano e passino le opportune normative.
E qui sorgono i problemi. I singoli governi sono preoccupati, proprio come in Europa, dai flussi di migranti.
“La libera circolazione ha senza dubbio molti vantaggi economici e sociali, ma sappiamo che ci sono preoccupazioni al riguardo”, ha detto Abdullahi.
In effetti, la situazione socio-politica nel continente africano – dove i confini sono stati tracciati sulle mappe dalle potenze coloniali, i focolai di conflitto sono numerosi e la povertà può essere estrema – è molto diversa da quella dell’Europa, pur in crisi.
L’80 per cento dei migranti africani, poi, si muove all’interno del continente e solo meno del 20 per cento si dirige in Europa.
Questi movimenti causano, proprio come da noi, problemi di ordine sociale, economico e politico e di recente in Sud Africa, che ospita la seconda più grande comunità di immigrati dopo la Costa d’Avorio, ci sono stati scoppi di violenza xenofoba: circa 300 attività gestite da immigrati sono state distrutte e sono stati presi di mira lavoratori provenienti da paesi come Zimbabwe e Mozambico.
Insomma, non si parla ancora di Stati Uniti d’Africa e anche con l’entusiasmo e l’ottimismo dei movimenti panafricanisti non si può fare a meno di ammettere che l’Ua si è dimostrata poco efficace nel combattere gli svariati e gravi problemi che affliggono il continente.
L’Ua ha spedito forze di pace in Somalia e in Darfur, e presto manderà i suoi soldati in Sud Sudan, ma non è intervenuta in Mali, dove i jihadisti hanno occupato il nord del paese, né ha saputo far fronte alla devastante epidemia di Ebola in Africa occidentale. Per non parlare del fatto che non riesce proprio a imporsi sulla pletora di “presidenti a vita” che governano molti paesi africani.
E si verificano casi interessanti, come quello del presidente del Ciad, Idriss Déby che nonostante le scarsissime credenziali democratiche (è riuscito in qualche modo e manipolando il voto a estendere il suo governo che è al potere ormai da 26 anni) ha ricevuto l’incarico di mediare nella crisi elettorale del Gabon.
I critici dell’Ua quindi sostengono che prima di lanciare grandi piani l’organizzazione dovrebbe rendersi più attiva e dimostrare agli africani di avere un impatto significativo sulle loro vite.
Tuttavia, il nuovo progetto del passaporto unico non può che essere un segnale positivo della reale volontà degli stati membri di procedere sulla via dell’integrazione.
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