Israele sta vivendo un grande paradosso perché, dopo che lo scorso 7 ottobre ha subito il più grave attacco della sua storia recente, ha condotto una risposta militare tale da alienare gran parte dell’iniziale solidarietà ottenuta dopo che Hamas ha ucciso oltre 1.100 persone e ne ha rapite oltre 200 nel sud del Paese. Perché, se da un lato Israele ha il pieno diritto di difendersi dopo i fatti del 7 ottobre, come confermato dalla Corte di Giustizia de L’Aja che nel procedimento intentato dal Sudafrica contro lo Stato ebraico non ha infatti ordinato lo stop alle operazioni militari terrestri, dall’altro non solo nell’opinione pubblica, ma anche tra i governi, sono sempre di più coloro che si stanno chiedendo dove voglia arrivare Netanyahu e quali siano effettivamente gli obiettivi di questa guerra.
Se il 7 ottobre ha fornito a Israele una grande occasione per cercare di sferrare un colpo decisivo nei confronti di Hamas e di tutta la sua struttura, non possono passare inosservate le notizie relative all’alto numero di vittime civili nel corso delle operazioni terrestri, alla distruzione di edifici su vasta scala, alle difficoltà di accesso agli aiuti umanitari nella Striscia, mentre molti esponenti di partiti estremisti al governo al fianco di Netanyahu si lasciano andare a dichiarazioni molto distanti dal principio adottato dalle Nazioni Unite dei “due popoli due Stati”. Tutto mentre sono totalmente indefiniti i piani per il futuro della Striscia di Gaza da mettere in pratica quando sarà finita questa guerra, con Netanyahu che ha sempre mostrato un atteggiamento critico nei confronti delle proposte arrivate dai partner occidentali.
Il prezzo della guerra
Proprio Netanyahu è agli occhi di molti la figura chiave della questione: già in calo di popolarità prima dei fatti del 7 ottobre per via di una controversa proposta di riforma della giustizia, si è trovato in casa il più grande problema di sicurezza interno probabilmente della storia di un Paese che in oltre 70 anni di esistenza ha fatto della propria sicurezza dalle minacce esterne una delle sue priorità assolute, perseguendola con rigore e operazioni spesso particolarmente audaci. Proprio per questo, portare a casa una vittoria decisiva contro Hamas non rappresenta per lo storico leader del Likud solamente un modo per garantire la sicurezza del proprio Paese dal suo peggior nemico degli ultimi anni e dai suoi più stretti alleati, ma anche un modo per garantirsi la popolarità e mantenere il potere.
Se forse nel nostro relativamente pacifico Occidente non riusciamo facilmente a comprendere la mentalità israeliana di uno Stato abituato a essere circondato da potenziali minacce esistenziali e che oggi, oltre che contro Hamas, sta assistendo a una crescita della tensione anche nei confronti di altri gruppi della regione come gli Hezbollah libanesi e gli Houthi yemeniti, dall’altra è legittimo chiedersi a cosa la posizione oltranzista di Netanyahu rischi di portare il suo Paese anche se dovesse ottenere una vittoria decisiva contro l’organizzazione terrorista palestinese e avere un provvisorio aumento di popolarità. Perché il prezzo di questo risultato potrebbe essere quello di alienarsi molti governi amici e una parte consistente dell’opinione pubblica globale, con conseguenze potenzialmente negative per un Paese che da sempre si trova a dover fronteggiare numerosi governi che non ne riconoscono nemmeno l’esistenza, ad affrontare posizioni critiche e essere bersaglio insieme a tutta la popolazione ebraica di un antisemitismo strisciante che purtroppo non si riesce a relegare al passato e sta purtroppo prendendo vigore sulla scia delle critiche verso Israele.
Per quanto sia indubbiamente difficile per lo Stato ebraico dialogare con Hamas anche ai fini di tregue momentanee, persino se finalizzate alla liberazione di ostaggi, la ritrosia di Netanyahu di fronte alle pressioni statunitensi e di altri Paesi occidentali, siano esse per un dialogo, per frenare le esternazioni dei ministri più estremisti, per intavolare un piano per il futuro di Gaza gestito da realtà palestinesi o la più recente richiesta di evitare un’offensiva terrestre su Rafah, ha reso più difficile il rapporto con Paesi storicamente alleati, che hanno risposto con decisioni forti. Nessuno avrebbe immaginato fino a poco fa vedere gli Stati Uniti imporre sanzioni nei confronti di coloni israeliani responsabili di azioni violente contro i palestinesi in Cisgiordania, né avrebbe immaginato il segretario di Stato agli Esteri britannico David Cameron parlare di «pazienza al limite» nei confronti di Israele. Tutte situazioni che rischiano di cambiare l’atteggiamento di molti storici partner verso lo Stato ebraico, con tutte le conseguenze del caso per quest’ultimo nel futuro prossimo.
Il peso delle parole
Ma parallelamente a questo, alle legittime critiche verso l’operato di Israele e del governo di Netanyahu si sta diffondendo quello che più o meno consapevolmente si traduce in un sentimento antisemita. Lo scorso primo marzo, il premier britannico Rishi Sunak ha messo in guardia circa i rischi di violenza estremista, e in particolare di antisemitismo e islamofobia, nascosti dietro le manifestazioni legate alla guerra a Gaza. Una frase arrivata dopo che tutti i Paesi hanno registrato un aumento di episodi antisemiti a partire dallo scorso 7 ottobre.
Non sono però solo gli atti esplicitamente antisemiti a creare un clima problematico per gli ebrei di tutto il mondo, ma anche quella zona di penombra indefinita che si muove tra la legittima critica a Israele e Netanyahu e sfocia verso posizioni ben più estremiste.
La senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta alla Shoah, ha messo in luce come si stia usando con estrema facilità la parola genocidio – uno dei crimini contro l’umanità più infami -, col rischio di svuotare questa parola del suo originale significato. Un grave problema comunicativo in corso, non facile da affrontare nella società troppo spesso manichea di oggi, in cui negare di essere di fronte a un genocidio sembra significare automaticamente agli occhi di molti di non essere di fronte a nulla di rilevante, e non a qualcosa di comunque particolarmente grave e sanguinoso su cui sarebbe bene prendere provvedimenti. Non è un caso che in linea con le parole della senatrice Segre possiamo vedere la decisione di Roberto Cenati di lasciare la guida dell’Anpi milanese e quella del consigliere comunale della stessa città, Daniele Nahum, di lasciare il Partito democratico.
La confusione che si rischia di generare intorno a queste parole e al confine tra critica all’operato di Israele e del suo attuale governo e posizioni più estremiste è qualcosa di molto problematico, anche intorno alla scelta della parola “sionismo” da parte di molti come bersaglio per contestare il governo dello Stato ebraico: essendo tuttavia il “sionismo” la ragione di esistenza dello Stato di Israele e più in generale di una patria per gli ebrei in Medio oriente.
Definirsi “antisionisti”, tecnicamente, vuol dire dunque negare questo diritto a una patria e sdoganare questo termine, magari col significato sbagliato e confusionario di generica accusa alle politiche di Netanyahu, può anche questo avere la propria problematicità. Una problematicità che rischia di colpire erroneamente e immotivatamente la popolazione ebraica di tutto il mondo. L’importanza delle parole, sulla scia di quanto sta succedendo a Gaza, sta venendo meno e gli ebrei che non sempre ce ne accorgiamo ma sono all’incirca appena 13 milioni in tutto il mondo, rischiano di farne ingiustamente le spese.
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