Sostenere la causa palestinese, svolgendo al contempo una costante autocritica. Edward W. Said (1935-2003), intellettuale palestinese naturalizzato statunitense, professore alla Columbia University, fu un maestro di coerenza. Quando, nel 1991, decise di dimettersi dal suo seggio all’interno dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), spiegò che le motivazioni risiedevano nel suo dissenso verso la leadership di Yasser Arafat che aveva supportato per vent’anni. «L’autocrazia, la dissolutezza, la corruzione, la stupidità: ne siamo sempre stati consapevoli, ma non pensavamo che sarebbero sfuggiti di mano al punto da diventare il problema principale». Così Said spiegò le sue dimissioni a un giornalista del New York Times in un’intervista del 1994.
«È facile criticare così, quando vivi distante dalla gente», gli rispose Nasser al Kidwa, nipote di Arafat, e, all’epoca, osservatore permanente alle Nazioni Unite per l’Olp. In questo senso, molti storsero il naso, tacciando Said di lavorare contro il governo e, appunto, di essere facilitato nelle sue critiche proprio perché lontano dal Paese. Per altri, come Kanan Makiya, accademico iracheno-americano, «lui e altri intellettuali arabi avevano fallito nel denunciare il dispotismo delle autorità arabe».
La rottura
È invece vero il contrario: Said era rimasto sì al fianco di Arafat per vent’anni, traducendogli i discorsi, suggerendogli di star lontano da Hafez al Assad, presidente-dittatore della Siria, che voleva trasformarsi nel rappresentante arabo dei palestinesi. Ma, proprio in virtù di questi consigli, era riuscito a individuare le criticità di un sistema rappresentativo in cui il capo dell’Olp era ossessionato – scrive Said in “Tra Guerra e pace” – «dal dover mettere mano ad ogni spesa all’interno dell’organizzazione».
Questo controllo delle risorse economiche, per la maggior parte donate dai Paesi arabi, fecero sì che alla morte del presidente dell’Olp, il Fondo monetario internazionale aprisse un’inchiesta per quantificare il patrimonio personale di Arafat. Ne venne fuori che aveva una disponibilità di circa un miliardo di dollari, ma non si riuscì a rintracciarne con esattezza la provenienza. Ci pensò nel 2003 Salam Fayyad, allora ministro delle Finanze, che rintracciò questo patrimonio occulto investito in diverse società in Palestina e all’estero.
Oltre a questo, a condurre al deterioramento della sinergia fra Edward Said e Yasser Arafat, furono sicuramente gli accordi di Oslo del 1993, fra palestinesi e israeliani. Un trattato che per il primo, Said, significarono l’asservimento della causa palestinese a Israele; mentre al secondo valsero il premio Nobel per la pace nel 1994. A esasperare la situazione ci pensò un estremista ebreo, Baruch Goldstein, che entrò in una moschea – vestito da militare e imbracciando un mitragliatore – e uccise oltre 40 persone, venendo a sua volta linciato e ucciso dalla folla. Per Said, quello era il segno che le tensioni non potevano placarsi se non si fossero fatti i conti con l’estremismo. L’unico argine a questo fenomeno, non poteva che essere una equa ripartizione dei territori, che avrebbe poi dato una parvenza di avvio verso una normalizzazione.
L’accademico palestinese, infatti, criticò gli accordi ferocemente, accusando Arafat di «aver venduto il suo popolo». Il patto, riteneva Said, non garantiva adeguatamente l’autodeterminazione e la sovranità palestinese. Visto che prevedeva un controllo israeliano sostanziale su molte parti della Cisgiordania. E questo non permetteva una vera indipendenza palestinese, ma piuttosto una forma di autonomia limitata sotto il controllo israeliano. Il conseguente smembramento territoriale avrebbe poi reso difficile la creazione di uno Stato palestinese contiguo. Rendendo complicata l’effettiva indipendenza e il libero movimento dei palestinesi all’interno dei loro territori. Mentre per la diaspora Oslo non aveva invece affrontato il diritto dei profughi palestinesi al ritorno. Proprio le vicissitudini dei rifugiati erano, per Said, uno dei nodi capillari della “questione palestinese”.
Guardare a questa causa oggi, con lo sguardo critico dell’autore di “Orientalismo”, esemplifica come la gestione arrendevolista di Arafat abbia poi portato all’exploit di Hamas nella striscia di Gaza e al ruolo sempre più marginale dell’Autorità Nazionale Palestinese.
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La ritorsione per queste critiche non lasciò intatto neanche il lavoro culturale di Said: fu vietata la vendita dei suoi libri all’interno dei territori controllati dall’Autorità, almeno fino al 2000. All’inizio del nuovo Millennio, Said riconobbe Hamas come una forza politica e sociale significativa nei territori palestinesi. Sostenendo che la crescita del gruppo riflettesse la frustrazione e la delusione tra i palestinesi, in particolare nella striscia di Gaza, a causa del fallimento degli Accordi di Oslo e dell’occupazione israeliana.
In questo senso, non lesinò critiche anche alla comunità internazionale per non essersi impegnata in modo più efficace nei confronti delle legittime preoccupazioni e aspirazioni del popolo palestinese, che, a suo avviso, contribuivano all’attrattiva di organizzazioni come Hamas. Anche gli intellettuali secolari, scriveva in “Peace and Its Discontents”, avrebbero corso il rischio di «stringere un patto con il diavolo sostenendo i movimenti religiosi», in nome della resistenza.
Ed è qui, oggi, che la sinistra occidentale, direbbe la lettura di Said, compie un grave errore: cade nell’idea che il compromesso con il diavolo, Hamas, sia l’unica soluzione per la questione palestinese. Oltre, e forse questo è anche più grave, a non riuscire ad avviare una critica all’interno della causa inquadrandola poi nel più ampio contesto arabo.
L’eredità
La complessità di quanto appena detto, la si evince osservando movimenti a sinistra che sostengono il diritto alla libertà dei palestinesi ma rimangono affianco a regimi autocratici arabi che, come tentò di fare Hafez al Assad, cercano di sfruttare la causa palestinese per trovare una legittimazione più ampia da parte di movimenti e partiti politici a sinistra. Se da un lato, direbbe Said, la sinistra vive in questa ambiguità; dall’altra la destra, allineata in maniera acritica con le politiche coloniali del governo israeliano, lo fa per un mero disprezzo dell’arabo in quanto tale. Per preservare la sua supremazia, controllando la sua paura – insensata – verso l’Islam, si affida alle promesse di Benjamin Netanyahu.
“Dire la verità”, come il titolo di un pamphlet di Said, pare essere l’unica forma di resistenza che gli intellettuali possono svolgere. E il lascito più grande di questo accademico palestinese, perennemente nel “luogo sbagliato”, è la capacità di fornirci un prisma con il quale osservare la Palestina. Riuscendo a schierarci, denunciando ogni violenza.