Dopo l’invasione dell’Ucraina, il mondo occidentale è impegnato in un confronto diplomatico, economico e militare contro la Russia che ha raggiunto il suo apice.
Il confronto sta raggiungendo toni isterici, come dimostra una recente risoluzione del Parlamento europeo che non solo definisce la Russia di Putin «Stato sponsor del terrorismo» ma invoca, liquidando l’intera eredità della Russia contemporanea, un «dibattito pubblico trasparente sui crimini del regime sovietico».
Se da un lato, con il possibile ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, l’Occidente sembra uscire più coeso dal conflitto, dall’altro, i Paesi del Sud del mondo rifiutano ostinatamente di accodarsi a Washington e Bruxelles.
L’Occidente – questo concetto scivoloso – non si identifica più, come all’indomani seconda guerra mondiale, con un progetto di emancipazione fondato su crescita economica e modernità, ma si è ridotto a sbandierare una presunta superiorità morale come difensore di democrazia e diritti umani.
Si tratta, d’altronde, di vessilli pronti ad essere frettolosamente ammainati, come dimostrano i Mondiali di calcio in Qatar, le strette di mano tra il presidente statunitense Joe Biden e il sanguinario Mohammad bin Salman, principe ereditario dell’Arabia Saudita, o la progressiva rimozione delle sanzioni contro il regime di Maduro in Venezuela.
La nuova strategia per la sicurezza nazionale di Biden evoca lo spettro degli «autocrati», pronti a «minare la democrazia ed esportare un modello di governo caratterizzato dalla repressione in patria e dalla coercizione all’estero». A novembre, l’Alto rappresentante degli Affari esteri dell’Unione europea Josep Borrell ha descritto l’Europa come un «giardino» di prosperità assediato dalla «giungla» pericolosa.
Non sorprende che i leader del Sud globale rifiutino dicotomie rozze («democrazie» contro «autocrazie») o metafore («giardino» contro «giungla») dai chiari connotati razzisti. In fondo, il rifiuto della logica militare ed economica bipolare della Guerra fredda, e dell’annessa retorica del “mondo libero” contro il “mondo comunista”, è parte integrante dell’identità dei Paesi usciti dal colonialismo.
A fronte di una declinante capacità attrattiva del mondo occidentale, da più parti viene evocato l’emergere di un “nuovo Non allineamento”, incarnato da nazioni come il Brasile, l’Algeria, l’India o l’Indonesia, che cercano di navigare tra Scilla (Occidente) e Cariddi (Russia e Cina).
Da Tito a Boumédienne Il movimento dei Non allineati trae le sue origini della conferenza tenutasi nella città indonesiana di Bandung nel 1955. I partecipanti all’incontro “afro-asiatico” includevano Paesi comunisti come la Cina o aderenti alla Nato come la Turchia.
Non erano dunque tutti Stati “non allineati”, ma nazioni che si opponevano al colonialismo che ancora dominava in gran parte dell’Africa e non solo, e alla disciplina del terrore imposta della Guerra fredda.
Come disse il leader indonesiano Sukarno, a Bandung si celebrò «la prima conferenza internazionale dei popoli colorati nella storia dell’umanità».
L’incontro che dette vita al movimento dei Non allineati si tenne nel 1961 a Belgrado: tra i promotori vi fu la Iugoslavia, un Paese europeo, ma il maresciallo Tito era l’eccezione in un gruppo di leader del Terzo mondo che opponevano un netto rifiuto alle alleanze militari della Guerra fredda.
Nel 1964, a seguito del lancio della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad), venne formalizzata la costituzione del Gruppo dei 77 (il G77), che mirava a coordinare il blocco terzomondista su questioni economiche quali la modifica delle regole del commercio internazionale, l’aumento dei prezzi delle materie prime, l’utilizzo dei fondi per l’aiuto allo sviluppo.
Il movimento dei Non allineati, resistendo all’inizio della distensione fra Washington e Mosca, ebbe un momento di gloria alla metà degli anni Settanta, quando, sotto la guida dell’Algeria del colonnello Boumédienne, riuscì ad imporre alle Nazioni Unite l’idea di un Nuovo ordine economico internazionale (Noei) per redistribuire la ricchezza da Nord a Sud.
Boumédienne avrebbe annunciato nel 1974 l’avvento del Noei con le seguenti parole: «Più degli argomenti che i Paesi industrializzati avanzano sul prezzo giusto del petrolio e sui timori che dimostrano rispetto ai suoi effetti sulle loro economie, ciò che più li offende e che più di tutti genera reazioni violente è che per la prima volta nella storia le nazioni in via di sviluppo si sono prese la libertà di decidere da sole i prezzi delle materie prime».
Con la fine della Guerra fredda il Non allineamento, già segnato da tensioni tra produttori di petrolio e importatori, nonché da diverse posizioni nei confronti dell’Urss, sembrò semplice spettatore dell’avanzata del Washington consensus, o de “l’ordine neoliberale”, che dir si voglia.
Eppure la globalizzazione economica degli ultimi trent’anni – che pure ha fatto emergere parte del mondo dal sottosviluppo (il 75 per cento della riduzione della povertà globale è dovuto unicamente alla crescita cinese) – ha lasciato indietro intere regioni, dall’America Latina al sud-est Asiatico.
La quota della ricchezza globale spettante al 50 per cento per cento degli abitanti più poveri del pianeta è tornata oggi ai livelli del 1820.
In questo quadro le istituzioni economiche a guida occidentale, in primo luogo l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc), nata solo nel 1995, sono state messe più volte sul banco degli imputati. E la guerra in Ucraina sembra aver esaltato tutte le contraddizioni e i fallimenti del trentennio neoliberale.
Quali sono oggi le forme diplomatiche in cui si manifesta questo Sud globale? Da una lato c’è il G77, al quale abbiamo già fatto riferimento: oggi conta 134 nazioni e si è battuto per ottenere una compensazioni climatica per le emissioni di C02 immesse nell’atmosfera dalle nazioni più industrializzate a partire dalla rivoluzione industriale.
Poi c’è il gruppo dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) lanciato nel 2009 ad Ekaterinburg, in Russia, al quale hanno già chiesto di aderire Algeria, Iran, Argentina, mentre Indonesia e Nigeria sembrano sul punto di farlo. Vi sono i Paesi non occidentali del G20, creato 2008 per reagire alla crisi finanziaria partita da Wall Street e trasmessasi all’Unione europea.
Nel recente incontro di Bali, nonostante il tentativo di alcuni membri di ottenere una condanna unanime della Russia – che nel 2014 era stata già stata cacciata dal G7 – i Paesi del G20 in sostanza si sono accordati sull’essere in disaccordo.
La geografia diplomatica del Sud globale è cangiante. Cina e Russia vi assumono in alcuni casi un ruolo da protagoniste. Vale la pensa aggiungere che anche l’Opec, nata nel 1960 e divenuta la più efficace e autorevole alleanza di Paesi in via di sviluppo esportatori di materie prime, nel 2016 si è aperta ad una cooperazione strutturale con la Russia che va sotto il nome di Opec+.
Per molti versi il Sud globale è un’idea astratta che attrae il magma degli “scontenti” della globalizzazione a guida occidentale, dalle banlieu di Parigi alle campagne indiane. Ma se vogliamo identificare il Sud come un insieme di Stati questi sono i territori dove vive la stragrande maggioranza della popolazione mondiale.
Le economie delle nazioni del Sud facenti parte del G20 nel 2008 hanno superato il Pil degli Stati Uniti. Oggi i Brics valgono circa un quarto del Pil mondiale, mentre il G7 rappresenta ancora 60 per cento della ricchezza globale.
Cosa accomuna questi Paesi? Anzitutto, anche quando hanno condannato l’attacco russo in Ucraina, essi si sono opposti alle sanzioni economiche.
L’India ha aumentato le importazioni da Mosca del 430 per cento dopo febbraio, in particolare quelle di petrolio e fertilizzanti. Anche in Brasile, Lula, osannato in gran parte del mondo occidentale come protettore del polmone verde dell’Amazzonia, ha rifiutato di aderire alle sanzioni: «Putin non avrebbe dovuto invadere l’Ucraina. Ma il colpevole non è solo Putin. Anche gli Usa e la Ue sono colpevoli».
Il mancato appoggio alle sanzioni occidentali è alimentato dalla volontà di importare materie prime, grano, tecnologie, e forniture militari da qualunque parte provengano, specie se a buon mercato.
Ma vi è anche un sostanziale rifiuto delle “sanzioni indirette” statunitensi (la punizione per qualsiasi società faccia affari con un governo o una società sanzionata da Washington), nonché contro l’utilizzo del dollaro come strumento di pressione politica, come nel caso dei 7 miliardi di dollari della Banca centrale dell’Afghanistan sequestrati dagli Stati Uniti nel bel mezzo di una drammatica crisi alimentare per il popolo afghano.
La Russia è il primo fornitore militare di molti governi del Sud globale e la Cina è il loro principale partner commerciale. Nell’attuale situazione di crisi del debito, trainata dall’aumento dei tassi di interesse, Pechino sta fornendo liquidità di sostegno a 23 Paesi tra cui Sri Lanka, Ecuador e Zambia.
Sono molte le nazioni del Sud globale a volersi svincolare dai precetti del libero commercio e del libero movimento dei capitali nella gestione delle proprie risorse naturali. L’Indonesia ha affermato di guardare con attenzione all’Opec (di cui a lungo è stata un membro autorevole) e sta studiando «la possibilità di formare una simile struttura di governo per i minerali di cui siamo produttori tra cui il nickel, il cobalto e il manganese».
Jakarta ha già bloccato le esportazioni di nickel non raffinato e sostenuto la produzione locale di batterie. Vi sarebbero trattative avanzate per un’organizzazione tipo-Opec tra Argentina, Bolivia e Cile che ospitano il cosiddetto “triangolo latinoamericano del litio” in cui sono depositate il 55 per cento delle riserve del minerale cruciale per la produzione delle batterie.
In questo contesto la recente decisione del G7 di mettere un tetto al prezzo alle importazioni del petrolio russo e di costituire una Price Cap Coalition sembra un’altra sfida diretta a Paesi che vogliono costituire alleanze fra esportatori.
Il collante ideologico di un possibile “nuovo Non allineamento” sembra meno forte che in passato. La geografia di questo movimento è assai mutevole, e l’Onu non appare il principale teatro della cooperazione.
Alcuni, come il politologo Ivan Krastev, credono che sarebbe meglio parlare di leadership che ambiscono a svolgere il ruolo di perno per le rispettive regioni. Esistono però molti punti in comune nel tentativo di rafforzare la cooperazione Sud-Sud, nel rifiuto di una nuova Guerra fredda contro la Russia e Cina, nell’avversione alle “sanzioni indirette” imposte dagli Stati Uniti, nella persistente memoria del passato coloniale e nella scomunica delle recenti avventure militari americane (con un posto speciale riservato all’invasione occidentale dell’Iraq e ai 900mila morti che questa si è lasciata alle spalle).
Il nuovo Non allineamento non andrebbe dunque considerato un’organizzazione, quanto una comune aspirazione dei leader di molte nazioni del Sud a rifiutare la guida occidentale, specie nel momento in cui a Washington e a Bruxelles si rilanciano politiche commerciali e industriali segnate dal protezionismo, dal riarmo, e dalla volontà di garantirsi la sicurezza degli approvvigionamenti, quali che siano le conseguenze in termini di aumento dei prezzi delle loro importazioni per i Paesi meno sviluppati.
La prima domanda da porsi in questa situazione è se rapportarsi con Paesi come Brasile e Indonesia in quanto “mondo occidentale” sia conveniente; o se non occorra piuttosto che l’Unione europea, l’area più dipendente dal commercio e dall’importazione di risorse naturali, si presenti come polo autonomo di un mondo multipolare.
L’unica dichiarazione sull’identità europea mai approvata in un vertice dei capi di Stato e di governo – eravamo nel dicembre 1973 – recita che «l’unificazione europea non è diretta contro nessuno, né ispirata ad un desiderio di potenza», ma «un elemento di equilibrio e di cooperazione con tutti i Paesi, qualche che sia la loro dimensione, cultura e sistema sociale».
Questa impostazione, mai formalmente contraddetta da un documento di pari portata politica (nei successivi trattati Ue si parla di un generico, quanto immateriale, sostegno alla democrazia, ai diritti umani, e alla Carta Onu), è in contraddizione con l’attuale tendenza di Bruxelles del fare dell’Ue una potenza aggressiva, pronta a dividere il mondo tra autocrazie e democrazie, impegnata in una competizione economica globale a somma zero.
Non varrebbe inoltre la pena per l’Europa insinuarsi nelle molteplici contraddizioni del Sud globale, ad esempio puntando sul rilancio strategico del rapporto con i Paesi africani, concedendo loro una reale cooperazione fatta di imprese miste, di trasferimenti finanziari netti, di supporto all’integrazione regionale, e non di sottrazione di capitali, di risorse naturali e di militarizzazione dei confini?
Non sarebbe il caso di provare ad incrinare la crescente cooperazione strategica tra Russia e Cina, impegnandosi nel collaborare con Pechino nel contrasto al cambiamento climatico e nella creazione di joint ventures sulle tecnologie rinnovabili; e lasciando socchiusa la porta (ove fosse avviato un reale negoziato per la pace in Ucraina) ad una ripresa delle importazioni di risorse energetiche russe, ben più economiche di quelle che giungono da oltre Atlantico?
Il rischio è che, a forza di alimentare il fuoco di questa nuova Guerra fredda, dal Sud si guardi alla Cina e alla Russia come partner sempre più interessanti rispetto ad un Occidente militarizzato, protezionista e impegnato nella “globalizzazione competitiva”.
Scriveva Franz Fanon ne “I dannati della terra”: «La città del colono è una città di cemento, tutta di pietra e di ferro. È una città illuminata, asfaltata, in cui i secchi della spazzatura traboccano sempre di avanzi sconosciuti, mai visti, neppure sognati […] La città del colonizzato è una città affamata, affamata di pane, di carne, di scarpe, di carbone, di luce».
La perdurante tensione fra centri e periferie, non solo fra i Paesi del Sud e Nord del mondo, è il carburante che alimenta la formazione del nuovo Non allineamento. È bene ricordare che il colonizzato può farsi valere non solo con la forza della ragione e della diplomazia, ma anche con l’immane peso delle sue masse umane e con la generosa dotazione di risorse naturali.