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    Dentro gli ospedali improvvisati dove vengono curati i ribelli siriani in Turchia

    I ribelli feriti si curano in ospedali gestiti da siriani in Turchia, prima di tornare a combattere. E quasi tutti sono islamisti.

    Di Davide Lerner
    Pubblicato il 15 Dic. 2016 alle 17:25 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 21:34

    I feriti arrivano su furgoncini che sembrano trasportare casse da morto. Ma a Gaziantep, una città turca vicino alla frontiera siriana, i superstiti di Aleppo non arrivano negli ospedali. Ad accoglierli sono cliniche illegali, gestite da siriani e tollerate dalle autorità turche. Si trovano in case private, magazzini, sotterranei. Sono nascoste e sovraffollate.

    Dall’angolo della stanza si alza l’urlo di uomo seduto a terra accanto al suo respiratore, indica una gamba mozzata: “Tayyara rusi, tayyara rusi”, dice in arabo, “aereo russo, aereo russo”.

    “I turchi ci garantiscono il primo soccorso negli ospedali pubblici del sud-est, ma poi ci dimettono quando siamo ancora in condizioni critiche per fare spazio alle nuove emergenze”, racconta Rachid, un combattente della milizia Liwa al-Muhajireen che è rimasto ferito ad Aleppo. “Almeno Assad porta i suoi a curarsi dai russi, mentre a noi ci buttano qui come animali”.

    Considerata dai siriani come parte dell’Esercito siriano libero (Fsa), in realtà la fazione armata di Rachid era legata allo Stato islamico, fino a quando ha rotto col califfo. Ora appartiene al fronte di al-Nusra, un’emanazione di al-Qaeda che ha modificato il proprio nome in Fateh al-Sham.

    “Vorrei tornare a combattere ad Aleppo prima della resa definitiva”, dice mostrando fiero le cicatrici di quattro proiettili. “La mia famiglia è nella zona di Deir ez-Zur, controllata dall’Isis; mi dicono che per uscirne dovrebbero pagare mille dollari a testa e attraversare un campo minato. Aleppo dimostra che Assad è peggio degli israeliani, con i palestinesi non hanno mai raggiunto questo livello di barbarie”.

    Sono alcune decine le cliniche illegali che costellano la Turchia meridionale, accogliendo i combattenti siriani che vengono dimessi in fretta e furia dagli ospedali pubblici. Alcune accettano anche civili, altre sono legate a una specifica formazione militare dell’opposizione, una galassia che è prevalentemente islamista-salafita. Tutte sono inadeguate a far fronte sia alla natura della richiesta medico-sanitaria sia alla mole di feriti di guerra.

    — LEGGI ANCHE: Chi sono davvero i ribelli siriani

    Nella stessa clinica di Rachid è ricoverata la piccola Shaima, il bel viso sfigurato dai frammenti di una bomba. “Il suo fratellino Abdul è rimasto ucciso dalle esplosioni che hanno coinvolto l’autobus su cui viaggiavamo nella zona di Aleppo est”, racconta il padre Mahmoud. “Shaima avrebbe bisogno di un’operazione all’occhio che possono fare solo in Occidente, per tornare a vedere come si deve”.

    Un problema simile è quello di Walin, un combattente del gruppo islamista Jabhat al-Shamia che è ricoverato in un’altra pseudo-clinica di Gaziantep.

    “Non abbiamo i mezzi per intervenire sulla retina qui”, spiega il responsabile Khalouk, nome di battaglia Abu Omar. Nel suo ufficio e sui comodini dei pazienti ci sono i grandi classici del pensiero politico islamista: libri firmati da Hassan Al-Banna, il fondatore della Fratellanza Musulmana, e del suo seguace oltranzista Sayyid Qutb. “Fu ucciso e torturato da Nasser nel 1966”, ricorda Ahmad Hamadiu, uno dei dirigenti, ancora un po’ arrabbiato.

    C’è anche un pamphlet dell’Esercito siriano libero in cui si spiega perché Isis non è un movimento davvero islamico. “Qui non accettiamo combattenti di Isis”, spiega il capo Abu Omar. “I soldi per le case di cura ci arrivano da imprenditori turchi e siriani, e molto presto regolarizzeremo le cliniche con le autorità turche”, dice in una stanza arredata con bandierine del Fsa e un poster con la scritta “Non c’è profeta al di fuori di Maometto”.

    “Gli europei devono capire che per noi il profeta è una linea rossa che non può essere superata”, spiega sfogliando il registro cartaceo dei pazienti, che “molto presto diverrà digitale”.

    Nella cittadina frontaliera di Kilis, a un’ora di macchina da Aleppo, i profughi siriani sono ormai più numerosi dei cittadini locali turchi.

    Durante tutta l’estate scorsa qui sono piovuti i razzi Katyusha di Isis, che era arrivato a controllare le zone a ridosso della frontiera turca.

    In una palazzina all’apparenza residenziale c’è una casa di cura della Divisione Hamza, un gruppo armato dell’Fsa considerato non islamista ma moderato.

    Mohammed, Juma e Mustafà hanno solo vent’anni, i corpi irreparabilmente segnati. Ma non rimpiangano l’inizio della guerra civile che ha rovinato le loro vite. “La nostra religione sunnita avrebbe finito per essere annientata nel paese”, dice Mohammed.

    Juma sorride tendendo la benda dell’occhio ferito: “potessi, lascerei perdere e me ne andrei in Italia”. Infine Mustafa, il ghigno da pazzo mentre mostra la gamba senza osso che trascina zoppicando quasi orizzontale. “Voglio tornare a combattere in Siria, e poi portare il jihad fino in Germania”. 

    La testimonianza di un ferito siriano: 


    Una versione ridotta di questo articolo appare anche su “La Stampa”

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