Leggi TPI direttamente dalla nostra app: facile, veloce e senza pubblicità
Installa
Menu
  • Esteri
  • Home » Esteri

    L’ordine internazionale alternativo della Cina

    Credit: AGF

    Sciogliere la rete di alleanze degli Usa. Escludere dalle istituzioni sovranazionali i “valori occidentali”. Abbattere il dominio del dollaro. E controllare le nuove tecnologie. Così Pechino vuole cambiare i rapporti di forza globali. A favore di un mondo multipolare

    Di Giulio Alibrandi
    Pubblicato il 9 Ago. 2024 alle 16:57 Aggiornato il 5 Set. 2024 alle 11:12

    Interrotto da slogan e urla mentre un gruppo di manifestanti, seduto alle sue spalle, mostra le mani macchiate di rosso. È la scena ripresa da cameraman e fotografi durante un’audizione al Congresso di Antony Blinken, accolto dalle proteste contro la devastante campagna israeliana nella Striscia di Gaza.

    Mentre passava in rassegna le numerose «sfide» che gli Stati Uniti stanno affrontando in tutto il mondo, Blinken è stato interrotto ripetutamente dai manifestanti, che lo hanno accusato di essere un «criminale di guerra» responsabile del genocidio contro il popolo palestinese.

    «La necessità della leadership globale degli Stati Uniti, e della cooperazione con alleati e partner, non è mai stata così grande», ha esordito Blinken nell’intervento del 21 maggio di fronte alle commissioni Esteri e Stanziamenti. I manifestanti lo hanno subito fermato: «Hind Rajab aveva sei anni quando gli israeliani l’hanno uccisa», ha affermato uno degli attivisti, ricordando la bambina palestinese morta a gennaio dopo che le forze israeliane hanno attaccato l’ambulanza che era venuta a soccorrere lei e la sua famiglia, colpiti mentre fuggivano in auto dai bombardamenti. «Blinken, sarai ricordato come il macellaio di Gaza. Sarai ricordato per aver ucciso palestinesi innocenti».

    L’episodio segue le proteste che hanno attraversato decine di campus universitari in tutto il Paese, considerate da molti osservatori un sintomo del divario crescente tra l’amministrazione guidata da Joe Biden e parte della base che lo ha eletto nel 2020. Una disaffezione che va al di là della sola politica estera e, assieme alle preoccupazioni legate alle capacità di Biden, ha contribuito ai risultati sempre più negativi nei sondaggi, fino al ritiro dalla corsa per la rielezione annunciato il 21 luglio. In vista della sfida di novembre contro Donald Trump, in cui anche Kamala Harris è considerata sfavorita, la Casa bianca sta cercando di contenere le ricadute delle diverse crisi, sul fronte interno ma non solo.

    La competizione “pacifica”
    Dall’incertezza legata all’invasione russa dell’Ucraina all’intensificarsi della guerra commerciale con la Cina fino alla crescente indignazione per l’offensiva a Gaza, le questioni aperte non mancano. Al primo posto nell’elenco di Blinken c’è la Cina e la sfida che Pechino ha lanciato all’ordine internazionale guidato da Washington. «La Repubblica Popolare Cinese sta perseguendo una politica di superiorità militare, economica e geopolitica, sfidando la nostra visione di un ordine internazionale libero, aperto, sicuro e prospero», ha sottolineato il capo del dipartimento di Stato, tra un’interruzione e l’altra dei manifestanti.

    Appena una settimana prima, l’amministrazione Biden aveva dato il via a un nuovo round nella guerra commerciale con Pechino, avviata da Donald Trump nel 2018. I nuovi dazi, che entreranno in vigore da quest’anno, riguardano nello specifico i prodotti green cinesi, come le auto elettriche. Su questi veicoli, diventati secondo alcuni una «minaccia esistenziale» per i produttori occidentali, i dazi sono stati quadruplicati fino al 100 per cento. Gli aumenti sono stati consistenti anche sulle importazioni di batterie al litio (dal 7,5 al 25 per cento) e di celle fotovoltaiche (dal 25 al 50 per cento). L’obiettivo è anche di riscuotere consensi tra gli elettori attirati dalle ricette di Trump e invertire la tendenza nei sondaggi, che vedono i democratici in svantaggio negli stati chiave. Inoltre i dazi dovranno dare tempo alle aziende statunitensi per recuperare il ritardo accumulato nei confronti dei produttori cinesi. Senza barriere commerciali, ha avvertito Elon Musk, la concorrenza d’oltre Pacifico finirebbe per «demolire» la maggior parte delle case automobilistiche mondiali. «Sono estremamente bravi», ha ammesso l’amministratore delegato di Tesla, temporaneamente scalzata nelle classifiche di vendita dalla cinese BYD a fine 2023. L’ultimo campanello d’allarme è stato proprio il lancio della BYD Seagull, un modello di auto elettrica venduto per l’equivalente di meno di 10mila dollari. Un miraggio per concorrenti come Tesla che, stando a quanto riportato dalla stampa specializzata, ha sospeso i piani per produrre un modello a basso costo, a lungo obiettivo della casa californiana.

    Vista di Washington…
    Ma la sfida lanciata dalla Cina non si limita alle tecnologie verdi. «La Cina può rimodellare il mondo?» È la domanda posta recentemente da Foreign Affairs, il bimestrale del Council on Foreign Relations, storico think tank statunitense, che si è interrogato sulle ambizioni di Pechino e le possibili contromisure che Washington può adottare per contrastare l’attivismo del regime di Xi Jinping in politica estera.

    Secondo Elizabeth Economy, fino all’anno scorso consigliera per la Cina del dipartimento del Commercio statunitense, nel mirino del presidente cinese ci sarebbero il dominio del dollaro e il controllo che Washington esercita sulle tecnologie più all’avanguardia.

    Per sfidare “l’ordine internazionale basato sulle regole” sostenuto dai Paesi occidentali, la Cina propone un nuovo ordine multipolare in cui possono trovare maggiore spazio i «valori cinesi» e la loro applicazione nell’ambito delle politiche sulla sicurezza, sullo sviluppo, sui diritti e sulla tecnologia.

    «Per prevalere in quella che sarà una competizione a lungo termine», ha scritto Economy, «gli Stati Uniti dovranno sfilare alla Cina il ruolo di portatore di cambiamento». «Washington deve articolare e portare avanti la propria visione per un sistema internazionale trasformato e il ruolo degli Stati Uniti all’interno di quel sistema, che includa Paesi a diversi livelli economici e con diversi sistemi politici», ha aggiunto l’esperta di Cina, senior fellow presso la Hoover Institution dell’università di Stanford, secondo la quale gli Stati Uniti dovrebbero investire «nei presupposti tecnologici, militari e diplomatici alla base sia della sicurezza interna che della leadership all’estero». Come già fa la Cina.

    Anche esperti vicini a Trump sottolineano che i tempi sono cambiati. «Nei prossimi anni gli Stati Uniti dovranno dare priorità alla Cina e all’Asia rispetto all’Europa, indipendentemente da chi sarà al comando: il primato dell’Asia e l’ascesa di una superpotenza come la Cina lo impongono», ha scritto sul Financial Times il falco anti-Cina Elbridge Colby, astro nascente della galassia repubblicana. «Nessuno sa cosa deciderà Pechino, ma sembra che la Cina stia facendo quasi tutto quello che è in linea con la preparazione di una guerra con l’America», ha scritto Colby, che durante la presidenza Trump è stato sottosegretario alla Difesa. Nipote dell’ex direttore della Cia William Colby, ha preso parte alla stesura della Strategia di difesa nazionale del 2018, che ha contribuito a spostare il baricentro dell’azione del dipartimento della Difesa verso il continente asiatico.

    Il futuro della relazione tra le due principali potenze mondiali è tra le questioni più importanti anche per chi non ha attraversato le stanze dell’amministrazione, democratica o repubblicana che sia. «C’è un filo conduttore dall’Ucraina, petrolio e gas, alimentazione, immigrazione, tutte le nostre relazioni, la più importante delle quali è quella con la Cina», ha detto in un’intervista il decano di Wall Street Jamie Dimon. Riguardo il rischio di un conflitto, l’amministratore delegato di JP Morgan sembra avere un punto di vista diverso da quello del mondo trumpiano. «Non c’è motivo per cui debba entrare in guerra», ha detto durante una conferenza organizzata dalla banca a Shanghai, aggiungendo che «la Cina non è mai stata espansionistica». Secondo Dimon, sia Cina che Stati Uniti hanno invece un «interesse comune» nell’antiterrorismo e nella lotta alla proliferazione nucleare. Più netto Jeffrey Sachs, economista noto per i suoi lavori sullo sviluppo economico e per il suo ruolo nella transizione dei Paesi dell’Europa dell’Est all’economia di mercato, che negli ultimi anni ha assunto posizioni sempre più critiche nei confronti delle politiche statunitensi. Secondo Sachs, la Cina non rappresenta una minaccia per gli Stati Uniti ma per «l’egemonia statunitense». 

    «Non minaccia di prendere controllo degli Stati Uniti, ma minaccia l’idea che gli Stati Uniti governino il mondo», ha detto Sachs, criticando proprio Foreign Affairs. «Ogni numero è: “siamo ancora i numeri uno? Cosa possiamo fare? Come possiamo tenere testa alla Cina? Come possiamo contenere la Cina?” Tutto riguarda la Cina. Non perché la Cina ci stia minacciando, ma perché la Cina ci sta mostrando che non gestiamo il mondo nel modo in cui ci piace pensare», le parole dell’economista, rilanciate dallo stesso Global Times, quotidiano del Partito comunista cinese.

    …e da Pechino
    Il punto di vista di Pechino, articolato in un documento del 2023 dal titolo  “L’egemonia statunitense e i suoi pericoli”, è che Washington è «aggrappata suo sistema di alleanze» per «creare divisioni nella regione, alimentare lo scontro e minare la pace». Gli Stati Uniti, secondo il ministero degli Esteri cinese, interferiscono «negli affari interni di altri Paesi», utilizzano lo status del dollaro come valuta di riserva internazionale per costringere «altri Paesi a servire la strategia politica ed economica americana» e cercano di «scoraggiare lo sviluppo scientifico, tecnologico ed economico di altri Paesi». Le «vere armi nell’espansione culturale degli Stati Uniti», secondo il ministero, sono le «linee di produzione della Mattel Company e della Coca-Cola».

    La Cina dice di avere una concezione delle relazioni internazionali in netto contrasto con quella promossa da Washington. La visione cinese è di un sistema internazionale basato sulla multipolarità e la sovranità nazionale, in cui lo sviluppo riveste un ruolo centrale e i diritti umani dipendono dal contesto dei singoli Paesi. Pechino spera così di attirare i molti Paesi messi ai margini dalle politiche occidentali e di lasciare a Washington il ruolo di difensore di uno status quo sempre più insostenibile e delegittimato.

    Secondo Xi Jinping, il momento del cambiamento è arrivato. Durante la Conferenza centrale sul lavoro relativo agli Affari esteri dello scorso dicembre, ha detto che la Cina è «un grande Paese» che ha creato la «più grande piattaforma mondiale per la cooperazione internazionale» e ha aperto la strada alla «riforma del sistema internazionale». Ha inoltre assicurato che la filosofia di Pechino sull’ordine globale, sintetizzata dallo slogan «comunità con un futuro condiviso per l’umanità», è passata dall’essere una mera «iniziativa cinese» a riflettere un «consenso internazionale».

    La strategia del governo cinese passa prima con gli accordi con i singoli Paesi, per integrare le loro proposte all’interno di organizzazioni multilaterali e poi nelle istituzioni di governance globali. Il modello di riferimento è quello della Belt & Road Initiative (BRI), arrivata a raccogliere in poco più di 10 anni circa 150 Paesi membri. Fino al ritiro lo scorso dicembre, l’unico di questi a essere membro del G7 era l’Italia, che ha aderito nel 2019. Quell’anno ben 37 leader avevano partecipato al Belt & Road Forum organizzato a Pechino. L’anno scorso i capi di Stato e di governo presenti all’evento erano 23. Un segnale, secondo alcuni, che l’influenza della BRI si sta affievolendo, dopo aver favorito investimenti per miliardi di dollari in strade, ferrovie e altre infrastrutture in Europa, Asia e Africa, arrivando a coinvolgere 18 Paesi dell’Ue su 27.

    Un sistema più “popolare”
    Oltre alla Belt & Road, Pechino sta facendo leva su altre iniziative, anch’esse avviate sotto Xi. La Cina è riuscita a integrarle in numerosi programmi delle Nazioni Unite, allineando la Belt & Road all’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Lo stesso vale per la Global Development Initiative, lanciata nel 2021, che può contare su più di 70 Paesi aderenti al Gruppo dei Paesi amici della GDI. Ancora più consensi li ha riscossi la Global Security Initiative (GSI), introdotta nel 2022. Secondo il ministero degli Esteri cinese, più di 100 Paesi, organizzazioni regionali e organizzazioni internazionali hanno sostenuto l’iniziativa. La Cina ha incoraggiato inoltre organizzazioni come i Brics, l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico, l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai ad adottare i principi della GSI. Secondo il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, un esempio della sua applicazione è stato l’accordo a sorpresa tra Iran e Arabia Saudita, mediato l’anno scorso da Pechino.

    Questi risultati sono dovuti in parte all’impopolarità di cui gode il sistema guidato dagli Stati Uniti in molte parti del mondo. L’incapacità di contenere guerre, massacri, pandemie, l’emergenza climatica e altre crisi che colpiscono in maniera più marcata le popolazioni più povere ha inciso in maniera significativa sulla credibilità del “sistema basato sulle regole” occidentale. Molti governi sono quindi propensi a mettere in discussione l’applicazione unilaterale di sanzioni, il dominio del dollaro e la retorica della divisione del mondo tra democrazie e autocrazie.

    Nell’articolo su Foreign Affairs Elizabeth Economy sostiene che gli Stati Uniti devono seguire l’esempio della Cina e cogliere l’opportunità, mentre l’economia cinese è ancora in difficoltà, per agire aggressivamente e imporre un cambiamento sistemico. Tra le proposte c’è quella di promuovere di una «rivoluzione tecnologica ed economica», puntando ad esempio sull’intelligenza artificiale, e favorire nuove norme e istituzioni in cui possano avere un peso anche le economie in via di sviluppo. Allo stesso tempo si propone di «stabilizzare» la relazione con la Cina, limitando la retorica ostile. «La Cina ha ragione: il sistema internazionale ha bisogno di riforme. Ma i presupposti di quella riforma si possono trovare meglio nell’apertura, nella trasparenza e nello stato di diritto, che sono i tratti distintivi delle democrazie di mercato», ha scritto Economy. Un ricetta che rischia di apparire fuori dal tempo in epoca di protezionismo e accuse di genocidio.

    Leggi l'articolo originale su TPI.it
    Mostra tutto
    Exit mobile version