Nell’estate del 2014 l’avanzata del sedicente Stato islamico sembrava inarrestabile in Siria e nell’Iraq settentrionale. A farne drammaticamente le spese è stata più di tutti l’antica comunità degli yazidi, i cui membri sono stati sistematicamente uccisi, torturati e fatti schiavi dai jihadisti.
Quando il gruppo estremista ha preso il controllo della regione yazida di Shingle nel nord dell’Iraq, un fiume di quasi 400mila sfollati si è riversato a Duhok e Irbil, nel Kurdistan iracheno.
Per coloro che sono rimasti intrappolati nella regione del monte Sinjar il destino è stato tragico: oltre temila donne e ragazze yazide sono state rapite dai miliziani per farne schiave sessuali, mentre i ragazzi di età inferiore ai 14 anni sono stati separati dalle loro madri, trasportati lontano e costretti a convertirsi all’Islam sottoponendoli a una rigida formazione religiosa e militare.
Adesso una commissione d’inchiesta sulla Siria delle Nazioni Unite ha dichiarato, basandosi sui terribili racconti dei rifugiati e dei sopravvissuti, che si è trattato di genocidio, cioè di pulizia etnica sistematica.
“Abbiamo scoperto almeno quaranta fosse comuni, ma un terzo dei territori in cui vivevano gli yazidi è ancora sotto il controllo del sedicente Stato islamico”, spiega Haider Elias, presidente di Yazda, un’organizzazione a sostegno del popolo yazida.
Alcuni testimoni hanno raccontato di un massacro in cui sarebbero state giustiziate contemporaneamente trecento persone. Almeno 3.200 tra donne e bambini sono ancora prigionieri dell’Isis.
Gli yazidi sono una setta religiosa che combina elementi di antiche religioni mediorientali. L’Isis li considera adoratori del diavolo, tanto da poter essere uccisi o ridotti in schiavitù impunemente.
“Nessun altro gruppo religioso presente nei territori controllati dall’Isis ha subito una persecuzione paragonabile a quella degli yazidi, ma negli ultimi due anni non è stato fatto nulla per aiutare queste persone”, conclude il rapporto delle Nazioni Unite.
Benedetta Argentieri